Politica

Rai, e adesso ci manca il vecchio Bernabei

Il mondo è bello perché è vario. C’è chi ama l’entomologia, chi colleziona film muti in polacco con sottotitoli in eschimese, e chi si appassiona al totonomine Rai. Ecco, per gli amanti del genere consigliamo anzitutto una visita da uno specialista. Per il resto, vediamo di fare un resoconto. Per la poltrona di presidente ancora niente intesa: dopo il no di De Bortoli, l’accantonamento di Petruccioli, la sparizione di Amato, dopo aver scartato Casavola e Zagrebelsky, nonché Folli, Manzella e Minoli, ritirati i nomi di Fabiani, Assumma e Mentana, allontanati Fo e Travaglio, messi da parte Rienzi, Celli, Rositani, Ruffini, Melograni, Onida, Follini e da ultimo Gianni Riotta, ecco, la caccia al tesoro si era concentrata su un paio di nomi freschi. Facce nuove. Il segretario Franceschini, a consulto con Gianni Letta, si è visto rispedire al mittente la proposta dell’ex direttore di Rai3 Angelo Guglielmi, che fra due settimane compie 80 anni tondi, ma subito prima aveva fatto il nome di Arrigo Levi, 82 anni compiuti.
Cominciamo dall’escluso. Guglielmi è entrato in Rai nel 1954 l’anno di inizio trasmissioni: quando al Vaticano c’era Pio XII e al Quirinale Luigi Einaudi, al cinema era appena uscito «Un Americano a Roma» con Alberto Sordi, e un litro di latte costava 81 lire. Quanto ad Arrigo Levi: è nato nel 1926, quinto anno dell’era fascista, quando in Italia la televisione non c’era: al massimo il cinematografo, e i primi passi di una strana scatola sonora chiamata radio, mentre in Inghilterra inventavano i semafori, alla Casa Bianca c’era Calvin Coolidge e un chilo di pane costava tre lire. Questi due nomi, che (fuor di ironia) sono nomi di grandi professionisti della tv italiana, sono le proposte più in voga nel partito democratico, ma solo dopo l’eliminazione di Sergio Zavoli. Che oltre ad essere il presidente della Vigilanza nonché grandissimo giornalista, è nato nel 1923: l’anno della riforma Gentile, quando il segretario del partito cattolico si chiamava Don Sturzo, al Cremlino era appena arrivato un certo Stalin, e in Italia la paga mensile di un operaio era di 200 lire.
Ebbene, se questo è l’andazzo, tanto vale fare trentuno. Se tuffo nel passato dev’essere, che tuffo sia. Se davvero «si stava meglio quando si stava peggio», se davvero lo sport è quello di proporre un candidato venuto al mondo sotto Vittorio Emanuele III, allora eccovi serviti. Un nome una garanzia: Ettore Bernabei. Proprio lui, il grande capo della tv pubblica negli anni del boom economico. Pensiamoci un momento: anagraficamente ci pare in regola, essendo nato nel 1921, quando in Italia il premier si chiamava Ivanoe Bonomi e Lenin inaugurava la Nep. Sulla sua opera non c’è da dubitare, visto che la sua Rai di pregio, la sua tv di una volta, è giustamente ricordata con nostalgia ancora oggi. Allora, perché non rinnovare? Ben venga Bernabei, e con esso una rigenerante opera di pulizia nei palinsesti della tv di Stato: sul secondo canale fuori il Dj Francesco e dentro Canzonissima con Delia Scala, Paolo Panelli e Gigi Manfredi. Fuori Panariello: rivogliamo il Sarchiapone di Walter Chiari, rimettiamo Antonello Falqui in regia. Si coprano le grazie, eccetto l’ombelico della Carrà, e ridateci il tuca tuca. Al sabato fuori Milly Carlucci e dentro Lelio Luttazzi con Studio Uno, richiamiamo Mina a cantare e le gemelle Kessler a danzare con la gonna che copre la caviglia. Al meteo fuori Caroselli e dentro Bernacca. La mattina fuori la Clerici e dentro il monoscopio.
Rivogliamo Luigi Longo al posto di Franceschini, Almirante al posto di Fini e Rumor al posto di Berlusconi. Sia rimpiazzato Gigi Riva nella rosa del Cagliari, Bettega in quella della Juve, e Gimondi sul sellino. Se così dev’essere, così sia: per andare avanti, in Rai evidentemente occorre guardare indietro.

Lo slogan nuovo di zecca? Fiato alle trombe, Turchetti.

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