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Il re di Ponza: "Una vergogna sequestrare quei pontili"

Ernesto Prudente da bambino vedeva passare davanti casa Nenni e Pertini al confino. Ora fa dimettere i sindaci. Vive tutto solo a Palmarola ed è l'autorità morale dell'arcipelago

Il re di Ponza: "Una vergogna 
sequestrare quei pontili"

Nell’unica isola della Repubblica italiana che misuri 1 chilometro quadrato e abbia una densità di popolazione di 1 abitante per chilometro quadrato era inevitabile che quell’unico abitante si autoproclamasse dapprima sindaco e poi presidente, come certifica la carta intestata che s’è fatto stampare. In realtà Ernesto Prudente, capo dello Stato libero di Palmarola, è da una vita il re di tutto l’arcipelago ponziano. Un’autorità morale indiscussa, eletta per acclamazione. E da monarca assoluto parla del suo quasi omologo, il sindaco, in questi giorni torridi, con la Procura di Latina impegnata a sequestrare attracchi abusivi e noleggi di barche: «Ponza è un’isola splendida, unica al mondo. Le istituzioni avrebbero l’obbligo di servirla in ginocchio. Invece... Come proprietario di un pontile, il signor sindaco è l’ultimo che può aprire bocca. Deve soltanto dimettersi. Pensi che ha appena ordinato alla polizia urbana d’indagare su tutti coloro che hanno una partita Iva. Da non credere. Ha messo gli uni contro gli altri. Una faida, sembra di stare in Calabria».
L’ultima volta che un primo cittadino venne costretto a lasciare lo scanno fu nel 2001 e il compito di farlo sloggiare se lo assunse in prima persona, a dispetto del cognome che porta, Prudente. «Chill’era nu sindaco per modo di dire, visto che amministrava società in affari col Comune. Lo portai in tribunale per conflitto d’interessi. Arrivai a mie spese fino in Cassazione. Vinsi io. Adesso il detronizzato è stato accolto nell’Italia dei valori da Antonio Di Pietro», socchiude a fessura gli occhietti azzurro cielo, come a dire che Dio li fa e poi li accoppia.
Il presidente di Palmarola, vecchio socialista, era bambino quando imparò che cosa fosse la politica, quella vera. «Ponza divenne luogo di confino degli antifascisti un anno prima che io nascessi. In via Dragonara, dove abitavo, c’erano tre mense per gli esiliati. Di lì passavano tutti, Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Lelio Basso, anche se allora noi manco sapevamo chi fossero. Il progetto di ristrutturazione della casa di mia nonna Giuseppa Albano reca la firma di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci, che era ingegnere. Giuseppe Di Vittorio, futuro segretario della Cgil, allevava galline. Un milite in camicia nera, di guardia nella garitta 24 ore su 24, impediva che parlassero con noi. Però ricordo che la domenica uno di loro si fermava per un istante sull’uscio di casa nostra, attratto dal brusio della radio a galena, e chiedeva: “La mia Inter cosa fa?”».
Con un’altra delle sue battaglie politico-amministrative, trent’anni fa Prudente ha ottenuto la residenza sull’isola di Palmarola, che dista 5 miglia da Ponza, lontana a sua volta 18 miglia da San Felice al Circeo, il punto di terraferma più prossimo. Ci abita, tutto solo, dalla fine di settembre alla fine di maggio. Impossibile resistere al richiamo di quello scoglio che affiora dal mare. «Lascio la moglie, i due figli, i nipoti e vado. Credo che sia la mia anima a convocarmi». Adesso che ha un po’ d’insufficienza respiratoria, il romitaggio presenta molte più incognite. «D’estate? Mai». In questa stagione Palmarola smarrisce il suo fascino selvaggio, diventa preda dei turisti che vi approdano da mattina a sera. «L’80 per cento delle imbarcazioni che fanno rotta sulle Isole Ponziane arriva anche qui». Sono i tre mesi in cui la meta arretra anche nelle classifiche personali di Folco Quilici, l’unico documentarista che ha battuto tutti gli oceani e che la considera fra le dieci isole più belle del pianeta, e di Bruno Vespa, che peraltro può continuare ad ammirarla a distanza dalla sua fantastica casa di Ponza scavata nella roccia, con terrazza a picco sul mare.
Quest’anno il vecchio Ernesto è stato recuperato dalla famiglia con uno stratagemma. «Il 25 maggio via radio uno dei miei due nipotini mi dice di tornare perché ha la sua prima comunione. “Vieni con abito scuro e cravatta”, mi ordina. Non capivo, mica ero io che dovevo ricevere l’eucaristia. “Chi vuoi invitare?”, mi chiedono i miei figli. Questi sono usciti tutti pazzi, penso fra me. Mi presento alla cerimonia tutto agghindato e scopro che si festeggiavano le mie nozze d’oro. Io avevo ben presente la data dell’anniversario, però non mi ricordavo d’essere sposato da mezzo secolo. Ho trovato un centinaio di persone ad attendermi, soprattutto tanti giovani: il più bel regalo». Sì, perché Ernesto Prudente è rimasto così, giovane dentro, nonostante gli 80 anni che compirà a novembre. Merito del trentennio abbondante passato in cattedra come maestro elementare. «Nel 1960 ero arrivato ad avere 52 alunni in una sola classe, una terza. Sempre niente a confronto dei 63 che si ritrovò nell’aula la mia collega Giovanna Tagliamonte. L’ultimo anno ne avevo appena 7. Colpa dell’esodo. I ponzesi si sono trasferiti sul continente a godersi i guadagni del turismo estivo e della pesca di aragoste, sa, qui se ne catturano ancora dai 50 ai 100 chili al giorno. Meno disagi, più servizi. Così dei quasi 7.000 abitanti del 1930 oggi ne restano residenti tutto l’anno poco meno della metà. Lasciai la scuola nel 1982 per essere più libero. Eppure mi sento ancora maestro e allo stesso tempo alunno: nella vita ho cercato di insegnare a tutti e di imparare da tutti».
Lasciò per amore di Palmarola?
«Soprattutto. L’amore è un destino di famiglia. Io sono di Ponza, però mio padre era di Napoli. Noi ponzesi non c’entriamo niente con Latina, abbiamo sangue partenopeo, fummo intruppati dal Duce solo per fare numero quando nel 1934 venne creata Littoria. Papà era comandante di bastimenti per il trasporto delle merci in Sardegna. Aveva fatto pratica sulla nave Silvia col padre di Vincenzo Onorato, l’armatore di Mascalzone Latino, che mi chiama cugi’ ma che per me è più di un parente. Umberto Prudente transitò di qui, conobbe Giovannina Albano, mia madre, e si fermò per amore».
Anche il dialetto mi sembra partenopeo.
«Infatti, lo è. La notte scorsa ho finito di tradurre in ponzese il Pinocchio di Carlo Collodi. Credo d’averne scritti ormai 25, di libri. Soprattutto su usi, costumi e dialetto. Ho applicato il consiglio del Machiavelli: tenete memoria delle vostre tradizioni se volete scrivere la storia del vostro paese».
Quando ha deciso di trasferirsi a Palmarola?
«La prima volta ci arrivai a 14 anni, portato dai cacciatori. Quaglie in primavera e beccacce in autunno: sostano qui durante le migrazioni. Vederla e invaghirmene fu tutt’uno. A quel tempo ci vivevano sei contadini che coltivavano legumi, cereali e il Piede di Palumbo, un vitigno campano. Nel dopoguerra l’isola si spopolò. Rimase l’unica casa, quella di villeggiatura appartenuta a Costantino Gresele, un colonnello degli alpini che aveva sposato una pronipote di Francesco Giuseppe, l’imperatore d’Austria. Suo figlio l’ha venduta a una delle sorelle Fendi, Carla, che ci viene d’estate. Il custode Leonardo Scotti è un mio caro amico».
La sua caverna non è certo all’altezza.
«Parva sed apta mihi, avrebbe detto Orazio. Trenta metri quadrati: cucina, due camerette, bagno e cambusa. Piccola ma adatta a me».
Né luce, né gas.
«Ci sono i pannelli solari, tre gruppi elettrogeni, un’elica che col vento alimenta sei batterie. Congelatori e frigorifero funzionano a gas. Una bombola mi dura un mese. Ho la radio per comunicare con le navi di passaggio, con i pescatori e con la famiglia. Mia moglie mi chiama da mezzogiorno all’una e dalle 19 alle 20. Adesso poi ci sono i telefonini: se mi metto sul versante dell’isola che guarda Ponza posso parlare con chi voglio. L’unica volta che mi sono dimenticato d’accendere il cellulare, uno dei miei figli è piombato qui scortato da un suo amico alto un metro e 90, che di scarpe porta il 47. Io, ignaro di tutto, udendo il tramestio fra gli arbusti, ho lanciato un fischio da stadio. Subito s’è sentito un urlo: “È vivo!”. Mi credevano morto. Però subito dopo m’avrebbero ammazzato volentieri. Vuol mettere le tribolazioni dei contadini che c’erano prima di me? Dovevano accendere un falò alle estremità di Palmarola. Quello era il segnale che avevano bisogno di aiuto».
Per l’acqua come fa?
«Se il mio antro si chiama Grotta dell’acqua, un motivo ci sarà, le pare? Gli uomini preistorici ci scavarono una cisterna. Ho da parte 10.000 litri di acqua piovana».
Quali sono i momenti più brutti a Palmarola?
«Sono anche i più belli, quando il mare è in burrasca e sembra che voglia annettersela. Allora scendo fino all’insenatura dove urla di più, dove cerca di prendersi i faraglioni, e me ne sto lì in contemplazione per ore».
Non teme che un’onda anomala la sommerga?
«Tipo tsunami lei dice? Be’, ci sono alcuni posti di passaggio in cui, se non stai attento, la tempesta ti porta via. Ma il mio rifugio è a 170 metri sul livello del mare. L’unica cosa che non faccio mai, neppure con la calma piatta, è andare a pesca. Gli scogli sono pericolosi e io, con l’età, ho imparato che non devo cadere».
Che cosa apprezza di più dell’isola?
«Il silenzio. In certi valloni è così profondo che mette paura».
C’è qualcuno che vorrebbe ritirarsi a vivere qui?
«Tantissimi. Solo che dopo tre giorni mi dicono: “Chiami una barca, per favore”».
Anche Vip?
«Io me ne strafotto dei Vip. L’unico al quale non ho ancora stretto la mano è quello vestito di bianco».
Chi sarebbe?
«Il Papa. Ma solo perché non è mai venuto né a Ponza né a Palmarola. Per il resto, sono stato presentato a tutti, da Costantino di Grecia a Juan Carlos di Spagna. Mi considero l’uomo più ricco del mondo. Ho tanti amici. Qualunque cosa mi passi per la testa, loro me la procurano. Mi sono riconoscenti per il fatto che gli metto a disposizione la mia povertà. È difficile condividere la povertà. Se lei è povero, quel poco che ha cerca di tenerlo per sé. Due giorni fa mi hanno regalato una grancevola, assai più rara dell’aragosta. E un mese fa ho assaggiato per la prima volta in vita mia i mirtilli. Io contraccambio con mazzetti di asparagi selvatici, che qui crescono in abbondanza».
Nel 1995 i carabinieri scoprirono suoi conterranei che d’estate affittavano le grotte neolitiche di Palmarola per 6 milioni di lire al mese.
«Guardi, sono grotte che il re di Napoli nel 1788 suddivise fra alcune famiglie ponzesi. Niente di abusivo. I carabinieri sono venuti anche a casa mia, a cercare punte di lancia fatte con la selce e raschiatoi di ossidiana. E cocci di anfore e di tegole dei Romani. Continuo a trovarne e mi preoccupo di salvarli».
Se l’uomo è un animale sociale, com’è che lei va in cerca di solitudine e di silenzio?
«Perché devo far parlare il mio interno».
E che cosa le dice il suo interno?
«Che solo a Palmarola posso tornare bambino e assecondare la mia sensibilità per quei valori della natura che oggidì sono d’intralcio agli altri uomini».
Mi parli della natura sull’isola.
«Tanti serpenti, ma non pericolosi, soprattutto bisce d’acqua. Tante lucertole. Tanti topi. Ho sempre con me il mio Geppo. È un drahthaar, un cane da ferma tedesco. Senza, mi sentirei morto. Ci parliamo. Lui lo sa che sull’isola siamo soli. Va a dormire nella cuccia soltanto quando mi sono coricato io».
Entrambi esiliati come San Silverio, il 58° Papa, patrono di Ponza. Stando al «Liber Pontificalis», le sue spoglie mortali sono ancora qui.
«Ho fatto ricerche. La storia del pontefice non è ben chiara. Deposto dall’imperatrice di Costantinopoli, Teodora, moglie di Giustiniano, fu trascinato a Palmarola, dove morì di stenti nel 537. Su quel faraglione c’è la sua cappella. Il 9 giugno arriva un barcone, il prete vi celebra la messa, poi il labaro del santo viene portato per la novena a Ponza, dove il 20 giugno c’è la festa patronale».
Terra di confino da 1500 anni, Mussolini non inventò nulla.
«Su questo ho avuto una dura polemica con l’altro Silverio, Corvisieri, il fondatore di Avanguardia operaia, che è originario di Ponza. Ho dato ragione a Berlusconi, che nell’estate di sei anni fa aveva descritto il confino fascista come una villeggiatura. Non v’è dubbio che il Duce decise di mandare i suoi nemici a Ponza perché il luogo è molto ameno. Lo scelse per far capire all’estero, soprattutto in Francia, che il regime trattava bene gli oppositori. Con questo non voglio dire che togliere la libertà a un uomo non rimanga il peggiore dei delitti».
Non è che i ponzesi siano inclini alla litigiosità, vero?
«Ma no. È solo che il nostro mare è ricco di aragoste e di polipi, i quali notoriamente si detestano, tanto che di due attaccabrighe diciamo che parene u purpe e a ravoste. Del resto pretesti per arrabbiarci ce ne forniscono tutti i giorni».
Si riferisce ai pontili?
«Quello è solo il casus belli. Il porto risale all’epoca dei Borboni. Non è facile ormeggiare in questa rada, i barcaioli si sono dovuti arrangiare con i blocchi di cemento in fondo al mare. Ora i magistrati li sequestrano perché sono abusivi. Bella scoperta, si sapeva da 40 anni. Però attraccano ai corpi morti anche le motovedette dei carabinieri, della Guardia costiera e delle Fiamme gialle. Non si possono creare nuovi ormeggi perché deturpano la costa. Allora perché non riesumare l’antico porto romano, che sta sott’acqua da duemila anni? È un’insenatura naturale che entra nell’isola per un chilometro e non si vede dal mare, sarebbe un approdo molto sicuro per l’inverno. Ci sentiamo abbandonati. Il collegamento della Caremar con Anzio di solito durava fino al 30 settembre. Quest’anno hanno annunciato che cesserà il 22 agosto. Incredibile».
Che cosa prova quando deve salire sull’aliscafo per raggiungere il continente?
«Una brutta sensazione. La nave che lascia questa costa fa un danno all’anima. E lo fa a tutti, perché tutti mi dicono di provare la stessa cosa».
Come le sembra l’Italia vista da Palmarola?
«Incasinatissima».
(462. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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