Controcultura

"Al Regime non dovevo nulla non avendone avuto nulla"

Da San Vittore, Montanelli si rivolge al prefetto di Milano

"Al Regime non dovevo nulla non avendone avuto nulla"

Questo documento, parte di una lettera del 1944 al prefetto di Milano, Piero Parini, e l'articolo nella pagina seguente sono tratti, per gentile concessione, da Indro Montanelli, Io e il Duce (Rizzoli, pagg. 350, euro 22). La lettera fu spedita dal carcere di San Vittore, dove Montanelli venne rinchiuso dai fascisti nel 1944. L'articolo fu pubblicato invece da Oggi il 22 dicembre 1982.

Eccellenza,

non è per chiederle aiuto che le scrivo, ma solo per chiarire un equivoco che mi pesa più di qualunque accusa. La prego perciò di leggere queste righe, anche se illegalmente trasmesse. L'equivoco si riferisce al mio cosiddetto «tradimento». Io tradii nel 1938. Fu in quell'anno che io, spontaneamente, rinunziai alla tessera, alla qualifica e al giuramento di fascista; e fu in quella occasione che tornando da Tallinn, indirizzai proprio a Lei una lettera in cui Le annunziavo le mie dimissioni dalla Direzione dei fasci Italiani all'Estero, motivandole con tre ordini di ragioni: il Suo ritiro dalla Direzione, il mio desiderio di tornare alla letteratura e la mia divergenza, oramai irrimediabile, dalle direttive ufficiali. Di questa lettera forse Lei non si ricorderà, ed io non ne conservo copia. Ma la lesse un nostro comune amico, Lamberti Sorrentino, che anzi in alcuni punti la modificò. Poco dopo fui invitato al «Corriere» dal suo direttore Borelli. Gli feci presente la mia situazione di non fascista, per la quale egli non poté assumermi come redattore, sostituendo a tale qualifica quella - molto meno vantaggiosa - di collaboratore. Resistei in seguito alle pressioni di Borelli di farmi riprendere la tessera, e redattore diventai su sua personale responsabilità.

Sono rimasto non fascista sino al '40, quando diventai categoricamente antifascista. Cosa di cui non feci mistero nemmeno in sede ufficiale. Richiamato da Pavolini allora ministro della Cultura, mi difesi dall'accusa di antifascista militante (che infatti era falsa, poiché non militavo in nessun partito), ma riconobbi francamente la mia disapprovazione per l'alleanza tedesca, per la guerra che avremmo perduta e, in particolare, per le direttive sulla propaganda. Richiamato da Senise, ribadii, anche sotto minaccia di confino, queste mie opinioni. Come vede, non potevo essere più esplicito. E la mia franchezza non fu mai messa in dubbio, come dimostrò l'incidente, abbastanza conosciuto a Milano, quando in un noto salotto antifascista a Dino Alfieri, che pure lo frequentava e che mi usò una villania, risposi che un regime, che teneva a Berlino un ambasciatore come lui, non poteva che perire. Altri episodi? Le mie visite a Croce, la mia familiarità con la Principessa di Piemonte, i miei stessi articoli che, sub specie litteraturae nascondevano sempre qualche critica al Regime e mi procuravano «grane» a ripetizione. E tuttavia non ero ancora militante. Militante diventai solo alla fine del '40 su invito di B. Croce, di Gallarati-Scotti e di Albertini, nel loro partito di «Ricostruzione liberale». Ma militante in un senso puramente dottrinario, cioè in quel senso che, con la pubblicazione di «Critica» era evidentemente tollerato dal Regime.

Al quale Regime che cosa dovevo io? Nulla. Non una giurata fedeltà, poiché mi ero spontaneamente ritirato dal giuramento. Non personali vantaggi, perché credo di essere l'unico giornalista italiano che non ha mai ricevuto un soldo dal Ministero (Mezzasoma e i suoi uffici possono, magari a denti stretti, testimoniare), nemmeno sotto forma di premio letterario. Non una situazione politica, perché non ne ho mai avuto una, nemmeno modestissima. E allora, chi e che cosa ho tradito?

Indro Montanelli

Indro Montanelli - Io e il Duce - pubblicato per Rizzoli a cura di Mimmo Franzinelli
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