Economia

Regole migliori per fare business

I sistemi di governance del mondo finanziario hanno evidenziato forti carenze. Perché? E dove occorrerebbe intervenire? Se ne è parlato in una tavola rotonda organizzata da BancaFinanza e da Nifa

Regole migliori per fare business

I sistemi di governance del mondo finanziario hanno evidenziato forti carenze. Perché? E dove occorrerebbe intervenire? Se ne è parlato in una tavola rotonda organizzata da BancaFinanza e da Nifa.

Al termine di una discussione durata un’ora e 43 minuti, mentre intorno al tavolo della sala delle riunioni di Aibe (Associazione italiana banche estere) i partecipanti all’incontro si stavano salutando, si è alzata, tonante, la voce del “padrone di casa”, il presidente Guido Rosa, che ha esclamato: «Se la crisi è scoppiata per mancanza di governance, oggi si può anche morire per eccesso di governance». Riassumendo così, in una frase, tutti i dubbi, le certezze, le convinzioni e i mal di pancia vissuti nella tavola rotonda che aveva proprio per tema: I modelli di governance del sistema finanziario. Come stanno cambiando, quali sono le loro finalità e quali trasformazioni portano.

 

Il dibattito è stato organizzato da Nifa (New international finance association, l’associazione interdisciplinare che riunisce personalità provenienti dal mondo accademico, giornalistico, professionale e associativo per approfondire e comprendere l’evoluzione in corso nel mondo finanziario internazionale), con la collaborazione di BancaFinanza. Il dibattito è stato moderato da Angela Maria Scullica, direttore responsabile di BancaFinanza e del Giornale delle Assicurazioni. Oltre a Rosa, erano presenti Umberto Bertelè,professore ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione e presidente onorario del Mip School of management al Politecnico di Milano; Ferdinando Parente, partner di Consilia business management spa, già responsabile della vigilanza di Banca d’Italia, sede di Milano; Mario Anolli, preside della facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative dell’università Cattolica; Antonio Ortolani, commercialista, presidente della commissione banche e intermediari finanziari dell'ordine di Milano; Alessandro Carretta, professore ordinario dell’università di Roma Tor Vergata e presidente di Aidea; Giuseppe Attanà, presidente di Assiom Forex; Enrico Tupone, segretario generale di Aibe; Antonia Boccadoro, segretario generale di Aiba; Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim; Piergiorgio Mancone, responsabile della commissione legal di Aibe, e partner legal di services & consulting.

 

Riportiamo i loro interventi che, sembrano quasi legati da un filo rosso. È come se sull’albero virtuale della governance ognuno abbia piantato il proprio ramo riuscendo a trasmettere la complessità di un tema che è sull’agenda di regolatori europei, banche, assicurazioni e finanziarie europee. Perché, come hanno evidenziato molti dei relatori, l’attuale crisi finanziaria, la più grave dopo quella del 1929, è nata proprio per mancanza di governance.

 

Domanda. Quali strumenti possono usare gli amministratori per prendere decisioni che non siano solo ispirate a quello che dice il ceo?

 

Bertelè. Gli strumenti nascono da un lato dalle strutture di controllo della società e dall’altro dal fatto che ci sia un sistema informativo ben calibrato e controllato, sotto la responsabilità del consiglio di amministrazione, che punti a dare informazioni chiare. Altrimenti, la governance si riduce solo a una questione di fiducia e di sfiducia tra amministratori e ceo. E non è un tema di poco conto. Infatti, molte volte, gli amministratori sono nominati per «effetto simpatia», cioè sono scelti perché stimati dall’amministratore delegato «amico». Parlo di persone non sprovviste di professionalità, ma sicuramente in difficoltà a dover sfiduciare il capo azienda. Fenomeno, questo, non solo italiano, ma anche statunitense.

 

D. Poi ci sono gli amministratori indipendenti…

 

Bertelé. Certo. Però sono figure non ancora definite completamente, nel senso che non sono chiari i loro compiti e obblighi. Credo, comunque, che il consigliere indipendente abbia potere reale solo quando è nominato dalla minoranza.

 

Parente. Ciò assume una rilevanza particolare nella governance delle banche. L’evoluzione normativa in questo ambito ha affrontato diverse questioni: il grado di coinvolgimento e consapevolezza degli esponenti bancari nella gestione e nel controllo dei rischi, le politiche e prassi di remunerazione e incentivazione, le attività di rischio e conflitti d’interesse nei confronti di soggetti collegati, la professionalità dei consiglieri. Vorrei approfondire quest’ultimo tema. Nelle disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche del marzo 2008 emanate da Via Nazionale (e, con maggior dettaglio, nella comunicazione del gennaio 2012, adottata anche a seguito delle linee guida elaborate dall’Eba nel settembre 2011 sul governo interno delle banche) è stato sottolineato un obiettivo cruciale: negli organi di vertice devono essere presenti persone pienamente consapevoli dei poteri e degli obblighi collegati alle funzioni che ciascuno di essi è chiamato a svolgere. Le professionalità devono essere adeguate al ruolo da ricoprire, e le competenze diffuse tra tutti i componenti e opportunamente diversificate: ognuno deve dedicare tempo e risorse adeguate alla complessità del loro incarico. Ciò significa assicurare che le loro mansioni siano svolte in modo efficace. E che, quindi, queste persone possano assumere le decisioni strategiche rilevanti in modo diretto. Svolgere quell’intenso e necessario monitoraggio sul management. Presiedere il sistema di controllo interno complessivo. Il governo di una banca, quindi, deve essere affidato a persone integre, onorabili e che abbiano conoscenze e competenze specifiche.

 

D. Per esempio? 

 

Parente. È fondamentale che la compagine dei consiglieri esprima una conoscenza adeguata del business bancario, delle dinamiche del sistema economico-finanziario, della regolamentazione della finanza e delle metodologie di gestione e controllo dei rischi. Soprattutto per quanto riguarda i consiglieri non esecutivi. È stato richiesto, quindi, alle banche di rafforzare, in linea appunto con gli indirizzi internazionali, il processo di autovalutazione del board, con riferimento alla sua composizione qualitativa e quantitativa e all’effettiva funzionalità dell’organo. Adottando un percorso trasparente per garantire che il processo di nomina conduca alla composizione ottimale del consiglio. Gli esiti del processo di autovalutazione sono stati trasmessi alla Banca d’Italia alla fine dello scorso marzo. Inoltre, nei prossimi mesi, ci si aspetta una revisione delle regole di governance per recepire la direttiva Crd Iv e ulteriori aspetti delle linee guida Eba. La qualità degli assetti di governo societario delle banche è, inevitabilmente, sempre più oggetto di approfondimento e confronto.

 

D. Quali normative, in concreto?

 

Parente. In Italia mi riferisco, per esempio, alla disciplina sulle operazioni con soggetti collegati che entrerà in vigore il prossimo 1 gennaio 2013 (con scadenza differita 30 giugno-31 dicembre). La normativa inquadra un aspetto molto delicato: il conflitto di interessi. In tal senso si prevedono precisi limiti quantitativi alle esposizioni verso soggetti collegati, regole deliberative e organizzative per assicurare la correttezza sostanziale e procedurale di queste operazioni, nonché il loro monitoraggio.

 

D. Parlando di banche, professionalità significa saper gestire il rischio non solo in modo prudente, ma soprattutto competente?

 

Parente. Certo. C’è il richiamo formale e sostanziale del governatore, Ignazio Visco, sempre nella nota del 11 gennaio 2012. La linea è comunque tracciata da tempo. Le banche devono poter contare su un governo societario integro, con più contrappesi, con una maggiore presenza di amministratori qualificati e competenti, anche non esecutivi, e con una sempre maggior capacità di fissare i livelli di rischio e di delineare le strategie per la loro gestione.

 

D. Quello che sostiene Parente è da condividere?

 

Ortolani. Assolutamente. Ma la sua è la rappresentazione di un modello più ideale che concreto. Mi spiego meglio. Il compito fondamentale per un intermediario finanziario è certamente la gestione e il controllo del rischio. Ma per gestirlo bene serve non solo la struttura ma anche un responsabile, ad alto livello. Solo che spesso non è il responsabile che crea la struttura, ma una volta fatta la struttura la si affida a un responsabile.

 

D. Cioè?

 

Ortolani. Cioè, ipotizzi questo percorso in banca: «abbiamo un comitato di controllo interno efficiente, il collegamento con l’It è correttissimo, aggiungiamoci la compliance e adesso vediamo chi nel cda è disposto a prendersi questo impegno gravoso». Il responsabile, insomma, arriva per ultimo e non è, di fatto, chi conosce bene il sistema di controllo.

 

D. Interessante è il discorso degli «amici» introdotto dal professor Bertelé, non le sembra?

 

Ortolani. Interessante sì. Il discorso degli «amici», che altrove può funzionare, in Italia di solito vuol dire «parti correlate». E questo non può andare. Perché è una delle situazioni nelle quali si sviluppano conflitti di interesse che possono portare a deviazioni. È un problema di mentalità sbagliata. Io sono di questa opinione: le banche devono fare business e devono guadagnare, ma in modo corretto. E questo vale per ogni azienda.

 

D. Più professionalità nei consigli di amministrazione delle banche. Più preparazione tecnica ed economica. Maggiore attenzione alla gestione dei rischi. Tutto questo avrebbe impedito la nascita della crisi finanziaria negli Usa?

 

Carretta. Stavo proprio pensando a questo mentre ascoltavo i colleghi. E mi è venuta in mente una delle conclusioni a cui è giunta la Commissione nazionale d’inchiesta statunitense sulle cause della crisi economica-finanziaria degli Usa. La leggo: «Noi concludiamo che la crisi era evitabile e che è stata il risultato non di eventi esterni, ineluttabili o di modelli quantitativi o informatici impazziti, bensì di azioni e inerzie umane che hanno riguardato, quindi, i protagonisti della finanza e i controllori, i quali hanno ignorato ogni possibile avvertimento e hanno mancato nell’interrogarsi, nel rispondere e nel gestire i rischi».

 

D. Il suo commento?

 

Carretta. Che la nostra discussione sulla governance non è inutile. Anzi. La governance in senso lato e il comportamento in particolare dei board ai vari livelli e nelle varie configurazioni hanno avuto probabilmente un impatto determinante e concreto nelle manifestazioni della crisi.

 

D. Che fare, dunque?

 

Carretta. Bisogna passare dalla compliance formale a una sostanziale, cioè a un’adesione a valori e comportamenti integri. Ma non possiamo fare l’errore di considerare i consigli di amministrazione solo una sommatoria di comportamenti individuali. Sono un contesto sociale e organizzativo nel quale le persone non possono essere lasciate sole nel prendere le decisioni.

 

D. Chi è più forte nelle banche: il ceo o il cda?

 

Carretta. Nelle realtà che ho conosciuto più da vicino, un consiglio forte ha spesso un ceo debole e viceversa. C’è un po’ questo effetto-ostaggio. Il cda ha spesso lavorato semplicemente come organo o di ratifica o di controllo, mentre dovrebbe essere un interlocutore altrettanto autorevole del top management. Diventare un partner o meglio, o uno sparring partner che aiuta l’azienda a prendere migliori decisioni».

 

D. Nei cda ci vorrebbero più amministratori indipendenti?

 

Carretta. Mah, l’indipendenzaè spesso un mito. Vi leggo la composizione del cda di Lehman Brothers. Tra i consiglieri c’erano un produttore teatrale, un ex ammiraglio, un precedente presidente di Sotheby e un giocatore di golf. Sul piano formale, questi signori sono consiglieri indipendenti.

 

D. Ma chi sono davvero questi consiglieri indipendenti?

 

Scolari. Quando leggo alcuni dei provvedimenti di Banca d’Italia sui compiti e le responsabilità dei cda, del consiglio di sorveglianza e del collegio sindacale e poi guardo la realtà, vedo una distanza notevolissima tra le regole e i fatti. Prima di tutto perché, molto spesso, amministratori e sindaci conoscono poco le normative che devono rispettare. Come nel caso dell’antiriciclaggio...

 

D. Ma veniamo agli amministratori indipendenti…

 

Scolari. Purtroppo, non c’è una norma in Italia che definisca chi è un amministratore indipendente; quando mi è capitato di dover valutare in un consiglio di amministrazione in merito alla mia qualificazione di indipendente, si è dovuti consultare il codice Preda. E credo anche che gli amministratori indipendenti, a cui associo i membri del collegio sindacale, siano stretti in una morsa tale da rendere poco appetibile questo compito. Perché da un lato la normativa attribuisce loro una responsabilità sostanzialmente uguale a quella dei consiglieri esecutivi, ma non c’è alcuna norma che preveda di assegnare loro il coordinamento e la responsabilità dei controlli, di nominare i comitati di controllo, di avere un’adeguata remunerazione. Gli onorari degli amministratori non esecutivi sono molto più bassi di quelli degli esecutivi, ma i rischi sono, direi, quasi sullo stesso piano.

 

D. Ma si può battere il conflitto di interessi?

 

Boccadoro. Forse il vero problema è il tempo di reazione rispetto alle situazioni di conflitto che si vanno verificando. È come se assistessimo a una rincorsa regolamentare che mette sotto pressione le autorità di vigilanza, che cercano di individuare i meccanismi di criticità da tenere sotto controllo, e dall’altra il management aziendale, che vive spesso queste fasi di adeguamento come mera burocrazia e costo amministrativo sulle strutture. Non le vive come opportunità alla ricerca di sistemi migliori per governare le imprese perché poi, alla fine, gli adeguamenti regolamentari si propongono di migliorare la corretta gestione del business. Credo, quindi, che non ci sarà mai un sistema di regolamentazione veramente efficiente se non è vissuto da chi lo deve mettere in pratica come un elemento di innovazione positiva per il migliore controllo della propria gestione. Ma i problemi non finiscono qui. L’altro aspetto riguarda la gestione delle informazioni. Il processo di data quality assessment che è fondamentale per i criteri di Solvency 2 e di Basilea 2, rappresenta un altro vulnus fondamentale. Per gli amministratori, che devono gestire il processo decisionale. Ma ancora di più per il sistema delle vigilanze, che dovrebbero controllare quanto avviene nelle realtà societarie. Credo che dal punto di vista dei tempi di reazione, la certezza della buona qualità delle informazioni sia un altro elemento fondamentale e critico, almeno per il settore assicurativo.

 

D. Conflitti di interessi e buona informazione. L’Italia, invece, è un po’ il paese della commistione e dei misteri…

 

Attanà. Effettivamente, il problema del conflitto di interessi, soprattutto nel panorama bancario e finanziario italiano, dove ci sono gruppi che operano spesso in posizione «semidominante» di grande rilevanza, è un nodo cruciale. Bisognerebbe trovare un punto di equilibrio fra la necessaria autonomia imprenditoriale, che favorisce la concorrenza, la competizione e l’innovazione, e l’azione del regolatore, che deve imporre le norme, allo scopo di disciplinare meglio questa delicata materia.

 

D. È stata molto criticata l’ingerenza del regolatore sul mercato finanziario.

 

Attanà. L’intervento del regolatore è stato inevitabile e, a mio avviso, assolutamente utile. Le critiche verso questa azione sono pervenute in particolare dal mondo anglosassone. In Italia, grazie anche a un lungo e proficuo rapporto tra operatori e regolatore, questa azione non è stata soggetta a critiche particolari. C’è stata, in verità, una «benvenuta» sorta di intromissione che, forse, in Italia abbiamo sentito meno perché ci abbiamo fatto l’abitudine, mentre in altri contesti internazionali, purtroppo per loro, l’intervento sembra più pesante anche se si è reso necessario.

 

D. Sui consiglieri indipendenti…

 

Attanà. Rispetto agli altri interventi, che condivido, posso aggiungere questo: nella pratica, è modesta la reale possibilità del consigliere indipendente di dedicare una quantità di tempo adeguata e risorse idonee per l’assolvimento ottimale dell’incarico. La ragione è semplice e risiede nel fatto che quelle figure, detenendo effettivamente un elevato livello di professionalità, ben riconosciuta da tutti, non sono numerose e, di conseguenza, i pochi personaggi che agiscono come consiglieri «indipendenti» siedono in molti consigli. E ci si chiede: come fanno, poi, a trovare il tempo necessario da dedicare per un’attività così delicata e importante?

 

D. Entriamo, insomma, nel campo dei comportamenti. Le norme sono importanti, ma è importante anche la condotta concreta delle persone. Non è così?

 

Anolli. Infatti. L’articolo 2381 c’è da un po’ di tempo così come non da oggi il comma 5 sostiene che gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato e che possono chiedere che vengano loro forniti i ragguagli. Per questo, dunque, non abbiamo bisogno della nota del governatore o di studi dell’Eba e delle istruzioni di vigilanza e via dicendo.

 

D. E invece?

 

Anolli. Invece la crisi ci ha insegnato molto, cioè ci ha fatto vedere cda non adeguatamente informati e non completamente attenti. Il problema, dunque, è come i consiglieri usano le norme. Faccio un esempio: sappiamo che le riunioni di consiglio producono verbali, e sappiamo che questi verbali vengono letti dall’autorità di vigilanza per verificare i singoli comportamenti.

 

D. Un comportamento improntato all’integrità può far passare in secondo piano l’aspetto competenze?

 

Anolli. Certo. È illusorio pensare che, su vari temi, un consigliere la sappia più lunga dell’amministratore delegato perché quest'ultimo ha trascorso tre mesi o tre anni a studiare una questione, si è avvalso di consulenti e poi ha inviato la documentazione due-tre giorni prima al cda. E anche il consigliere più diligente, che ha passato giorno e notte a leggere il fascicolo, non arriverà a essere preparato come il suo amministratore delegato.

 

D. E allora?

 

Ortolani. Più che sulla competenza, il compito dell’amministratore si gioca sulla dialettica: fa domande, non si accontenta di risposte semplici, approfondisce gli argomenti e dà seguito ai chiarimenti richiesti. Questi, in sintesi, sono comportamenti orientati all’integrità. E che conteranno anche sul piano pratico. Infatti, se dovessero subentrare contestazioni, questo suo comportamento sarà oggettivamente valutato. Quando si discute nel cda, le questioni non sono solo di galateo.

 

Bertelè. È vero: al di là delle regole, quello che conta sono i comportamenti reali. Soprattutto sulle questioni di conflitto d’interesse. Esempio: se proibisco a qualcuno di andare in Generali e questo qualcuno vi manda una persona che gli è legata in maniera strettissima, mi spiegate che differenza c’è? Ci sono intrecci così forti nel sistema complessivo che non sono facilmente eliminabili. Il difetto sta nel manico.

 

Ortolani. Sono d’accordo. Il vero problema - senza dover sempre scomodare il codice civile - è la coscienza del singolo di sentirsi adeguato o non adeguato a far parte del consiglio di amministrazione di una banca. Se non ci si sente adeguati, sideve lasciare l’incarico. Questo non è scritto nella norma, ma nella logica. Se in un cda si parla tedesco e non so il tedesco, è inutile che ci stia.

 

D. Come è il sistema di governance delle banche estere in Italia?

 

Tupone. Dal momento che stiamo parlando di filiali di banche estere, gli organismi che presidiano la governance sono presso le case madri. Il fatto è che le banche estere sono state al centro di alcune delle vicende più tribolate del mondo della finanza di questi ultimi tempi. E quindi hanno cercato di dotarsi di sistemi che fossero meglio adatti alla gestione del rischio, che poi è quello che si chiede a una banca: cioè la capacità di individuare i rischi, di gestirli e di porvi rimedio. A questo proposito, sono d’accordo con il professor Anolli, quando dice che al fondo di tutto c’è il comportamento virtuoso dell’amministratore.

 

D. Perché...

 

Tupone. ...perché, a fronte di amministratori che non hanno un comportamento virtuoso, possiamo mettere inutilmente in piedi tutte le regole che vogliamo. Il problema è, dunque, etico.

 

D. Servono, insomma, prima di tutto amministratori e top manager trasparenti?

 

Tupone. Non c’è alcun dubbio. Qualche tempo fa, in un incontro organizzato da Aibe sulla meritocrazia, hanno relazionato due top manager di banche internazionali, che ci hanno spiegato come all’interno delle loro strutture ci fossero criteri molto stringenti di selezione dei talenti. Il mio commento: negli ultimi due anni abbiamo visto emergere talenti che hanno combinato dei disastri pazzeschi; quindi ci servirebbero meno talenti e più manager onesti.

 

Mancone. Il conflitto di interessi non è un fenomeno italiano: sul tema, ci si confronta in tutto il mondo. Qualche anno fa un autore sostenne come il conflitto di interessi fosse endemico nell’economia moderna. Sono d’accordo.

 

D. Rimedi?

 

Mancone. È impossibile eliminare il conflitto di interessi in Italia. Se qualcuno ci riuscisse, meriterebbe il Nobel. Quello che si può fare è mitigarlo creando un sistema di incentivi e disincentivi ai comportamenti: premiare e sanzionare. La migliore dottrina ha da tempo individuato alcune macrostrategie per mitigare tali rischi e tutelare il più possibile tutti gli stakeholders, una buona corporate governance, infatti, non può prescindere da strategie mirate di reward (per esempio, stock option plan il più possibile basati su risultati di lungo periodo), o di trusteeship efficienti (per esempio, amministratori indipendenti con ruoli di controllo ben definiti all’interno dell’organo amministrativo). Per quanto riguarda i comportamenti, vorrei aggiungere che anche un amministratore indipendente ha una sua responsabilità - ineludibile - sulla valutazione dei sistemi di controllo interni di una società e, quindi, anche di una banca. Se accadesse un evento dannoso dovuto a mancanza di controlli, infatti, anche l’amministratore indipendente dovrà dimostrare di aver contribuito a un’analisi dell’assetto organizzativo della banca e che, nonostante ciò, l’evento si è verificato.

 

Carretta.Ha ragione chi ha detto che il problema vero restano i comportamenti. Perché quello che aleggia sempre, quando succedono eventi di straordinaria gravità nelle banche, è la teoria delle «mele marce». Che, cioè, ci siano in circolazione alcuni soggetti «non integri» che tengono comportamenti non virtuosi . Non ci credo. A Tor Vergata abbiamo effettuato una ricerca analizzando i profili anagrafici dei trader infedeli più famosi degli ultimi anni. Una decina. Abbiamo scoperto che tutti hanno più o meno la stessa età, percorsi analoghi, le stesse esperienze in banca nel settore dei controlli interni, profili familiari simili, e soprattutto che nessuno di loro hai mai goduto di un periodo di ferie, che avrebbe consentito ai sostituti di accorgersi delle attività non corrette in atto. Se a queste conclusioni sono arrivati ricercatori universitari esaminando i profili personali di questi signori dall’esterno, è possibile che non si riesca ad approntare controlli interni preventivi adeguati in organismi così sofisticati come le banche?

 

 Ortolani. È vero: c’è chi non va mai in ferie. Ma questo era uno dei controlli che si facevano un tempo. E si scopriva che chi non andava mai in ferie era spesso un piccolo ladruncolo, di quelli che addebitano le proprie bollette sul conto corrente di un povero pensionato ignaro che non controlla mai i suoi movimenti.

 

Rosa. C’è un problema duplice e drammatico. Da un lato c’è il disperato bisogno di dare delle regole di comportamento generali alle aziende e a chi le amministra. Dall’altro c’è l’eccesso di regole e la difficoltà di interpretarle perché, a volte, sono contraddittorie o divergenti, e rendono estremamente complicata la governance di una società. Si è arrivati al paradosso che nei consigli di amministrazione il 60% del tempo lo si passa a discutere della interpretazione delle regole di governance della società. Distraendo completamente l’attenzione del management e del cda dai problemi fondamentali di gestione. Non è detto che tante regole valgano una buona gestione. A volte è l’opposto.

Nel mondo anglosassone, ci sono poche regole e sanzioni molto pesanti.

 

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