Ricordando l’altro volto dell’Olocausto

(...) desertificato dalla presenza della più grande comunità ebraica d’Europa. «Sono qui - ripeteva spesso - per fare la guardia alle tombe del mio popolo». E lo ha fatto in un Paese che fino al 1989 sminuiva l’ampiezza della tragedia ebraica e non amava interrogarsi sull’indifferenza di una grossa fetta della popolazione durante la Shoah. Ha vissuto sulla sua pelle l’antisemitismo popolare e di parte della gerarchia cattolica che accusava gli ebrei sopravissuti di essere diventati la longa manus del potere comunista. E poi nel 1968 ha visto il partito di Gomulka scatenare una feroce campagna politica contro gli intellettuali ebrei, accusati di essere un germe corrosivo del sistema socialista. Ha detto di lui nella splendida orazione funebre l’emerito presidente polacco Tadeusz Mazowiecki: «Non ho mai conosciuto un uomo umile come lui, che, dopo avere fatto così tanto permettesse così poco che si parlasse di lui. Parlava sempre degli altri». E anche lo scrittore Vasilij Grossman ci ha dato una lezione di come si costruisce una memoria responsabile. In qualità di corrispondente di guerra fu uno dei primi testimoni che visitò il campo di concentramento di Treblinka. A lui si deve la prima documentazione sulla Shoah in Russia in uno straordinario volume curato insieme a Ilja Erenburg, Il libro nero sul genocidio degli ebrei nei territori sovietici occupati dai nazisti. Il volume però venne bloccato e censurato da Stalin che si apprestava a lanciare una campagna antisemita contro i cosiddetti sionisti e non voleva che si desse troppa visibilità alle vittime ebraiche del nazismo. In Urss allora si poteva soltanto parlare delle vittime sovietiche del nazismo. Questo tipo di censura che ritroviamo in differenti forme in tutti Paesi del blocco sovietico ha di fatto impedito che fino al 1989 al di là del muro si avviasse una riflessione sulla Shoah, come è invece è avvenuto nelle democrazie occidentali.
Grossman indaga le varie facce del male e si interroga sulle possibilità degli uomini di resistere. Utilizza un termine innovativo: la bontà insensata. E lo contrappone nelle vicende di molti personaggi del suo libro al Bene universale dei totalitarismi che in nome di un futuro radioso giustificano lo sterminio degli esseri umani e i peggiori delitti. Praticate la bontà, amate la vita e difendete il gusto della pluralità degli esseri umani è il messaggio che lo scrittore ci lascia dopo avere sperimentato sulla sua pelle i due totalitarismi del Novecento, auspicando come fine della memoria: l'eliminazione dell’odio politico e sociale dal cuore delle persone. La storia di Guelfo Zamboni, il console italiano che da Salonicco occupata dai nazisti riuscì a portare in salvo trecento ebrei condannati altrimenti a morire, ci propone una nuova dimensione della memoria responsabile.
Il bene non ha colore politico, sociale, ideologico e religioso. Non importa il ruolo, la funzione, il credo della persona che lo pratica. Nella nostra tradizione culturale troppo spesso il bene è etichettato politicamente. Si giudicano le persone non per ciò che fanno, ma per la loro appartenenza. Il regime fascista è stato responsabile delle leggi razziali e della persecuzione degli ebrei, ma ci sono stati dei funzionari dello stato italiano che pur servendo il regime hanno aiutato gli ebrei e si sono comportati da uomini giusti. La loro memoria merita rispetto. Guelfo Zamboni era della stessa pasta di Edelman. Ha salvato decine di vite, ma non ha mai cercato la gloria per se stesso.

Non amava la retorica.
Presidente del comitato per la Foresta dei Giusti

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