Politica

La riforma elettorale può attendere

Il primo febbraio il governo prende atto una prima volta di non essere garantito dalla sua maggioranza. Il fatto non si verifica sulla convenienza estetica delle bancarelle a Piazza Navona ma in tema di politica estera, allorquando il ministro della Difesa Parisi, sull’ampliamento della base Nato di Vicenza, incassa l’approvazione dell’opposizione al cospetto di una maggioranza divisa, imbarazzata e, alla fine, contraria.
Venti giorni più tardi, per verificare se si fosse trattato solo di un caso, il ministro D'Alema torna in Senato. Senza che nessuno glielo chieda pone lui stesso - sulla stampa e in aula - una questione di fiducia addirittura «rafforzata»: se non ci saranno i voti sulla politica estera - afferma - tutti a casa, evocando così lo spettro di un 8 settembre del governo.
I voti non ci sono. E, seppure in assenza di un voto di fiducia formale, questa volta le dimissioni non si possono evitare. Il Presidente della Repubblica Napolitano, dal suo canto, per rinviare al Parlamento quello stesso governo battuto già due volte, non casualmente, avverte il bisogno di motivare per iscritto la sua scelta. Non era mai accaduto prima nella storia della Repubblica. Non solo: pone anche la condizione dell'esistenza di una maggioranza politica, al netto cioè della «variabile» dei senatori a vita.
La condizione è esaudita, grazie al passaggio di schieramento di un parlamentare che, da solo, ritiene di possedere la forza per far crollare il muro tra sinistra e centro e determinare il ritorno in vita del vecchio centro-sinistra. In politica la considerazione di sé è certamente importante ma non per caso la via della democrazia è stata lastricata da atti d'umiltà. Ancora più paradossale, in questa situazione, è però il fatto che una crisi apertasi sulla politica estera si chiuda sulla necessità di una riforma elettorale. È come dire: la colpa dell'instabilità della maggioranza non dipende dall'esaurito collante dell'anti-berlusconismo. Né dalla convivenza forzata tra ideali di civiltà tra loro incompatibili. E nemmeno da differenze inconciliabili nelle scelte di politica estera. Non la si può riconnettere neppure al diniego della sinistra alla proposta avanzata da Berlusconi in apertura di legislatura, di un governo d'unità nazionale.
Ci si vorrebbe far credere, invece, che essa tragga origine, esclusivamente, da una legge elettorale sbagliata. Cerchiamo di essere seri, almeno per un momento: nemmeno su «scherzi a parte» avrebbero saputo ideare di meglio.
Se le cose stanno così, allora c'è bisogno di un chiarimento. Innanzi tutto: c'è di meglio di questa legge, ma essa non è la sentina di tutti i mali. In presenza di un bipolarismo perfetto, il suo principale difetto è dovuto ad una correzione voluta al suo tempo dal Quirinale (Carlo Azeglio Ciampi regnante), in realtà superfluo, per il quale a un premio di maggioranza nazionale alla Camera dei Deputati corrispondono premi di maggioranza regionali al Senato della Repubblica. Solo per questo si è verificato il pasticciaccio brutto del Senato, anziché una situazione politica che, come in Germania, avrebbe imposto un governo di larghe intese. Quella legge, dunque, si può correggere e anche cambiare a condizione, però, che tale procedura non divenga un alibi per prendere tempo o, peggio, per consentire ad alcuni di tradire, nella sostanza, il mandato ricevuto dagli elettori.
Oggi il tema all'ordine del giorno è un altro. I nemici dell'Occidente sanno individuare i punti deboli dello schieramento nemico e, com'è ovvio che sia, utilizzano ogni mezzo per provocare dei veri e propri smottamenti. Non crediamo sia un caso che il nostro contingente in Afghanistan sia stato oggetto per due volte, negli ultimi giorni, d'attacchi terroristici per fortuna falliti. E neppure la carcerazione imposta a Mastrogiacomo può essere derubricata a semplice inconveniente del mestiere. La gravità della situazione internazionale, e quella in Afghanistan in particolare, impongono, dunque, governi in grado di contare su maggioranze certe e coese. L'Italia lo deve ai suoi alleati e lo deve, a maggior ragione, ai nostri soldati esposti a situazioni di pericolo. Per questo, e ancor di più per quel che ci attenderà nei prossimi giorni, se non è stata giudicata sufficiente la «variabile» dei senatori a vita, non può essere ritenuta idonea quella dei voti dell'Udc e neppure di tutta l'opposizione unita. Si tratta di voti aggiuntivi ma che non servono a dare autorevolezza e forza autonoma all'esecutivo. Oggi più che mai il governo deve dimostrare di essere autosufficiente laddove per due volte è caduto ed è entrato in crisi. La legge elettorale può attendere. Imporla come priorità è calciare in avanti la palla al grido di «viva il parroco», sperando di guadagnare qualche metro di sopravvivenza.

In questa situazione, più che sconveniente sarebbe delittuoso.

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