Il rugby va in meta all’università Cattolica

Non c’è solo il Sei Nazioni. Anzi. La fotografia del rugby milanese racconta che le sconquassate imprese dell’Italia nel torneo più importante della pallaovale europea sono bilanciate e vendicate da una espansione senza precedente di questo rude sport, soprattutto tra i giovani e i giovanissimi. Quello che fino a pochi anni fa era uno sport di nicchia, sta diventando quasi una disciplina di massa. Centinaia di bambini e adolescenti si avvicinano al rugby con la benedizione (e spesso l’entusiasmo) di mamme e papà che hanno finalmente smesso di considerarlo uno sport brutale e incomprensibile.
Per Milano questa è la «Settimana Ovale», l’evento che accompagna le partite dell’Italia nel Sei Nazioni. Ad organizzare insieme la Settimana sono l’Università Cattolica e la 7, la rete televisiva che ha trasmesso per l’Italia tutte le edizioni del Sei Nazioni e che dall’anno prossimo sarà soppiantata dal network a pagamento Sky: un cambiamento cui la Federazione rugby guarda con preoccupazione, visto il ruolo decisivo che la trasmissione in chiaro del torneo ha avuto sullo sviluppo del movimento. Ma, a quei livelli, il rugby è business, e le montagne di euro messe sul tavolo dalla televisione di Murdoch per acquisire i diritti hanno sbaragliato ogni concorrenza.
Proprio di questo - cioè del difficile rapporto tra affari, media, valori rugbistici ed etica sportiva - si parlerà oggi pomeriggio alle 15,30 alla Cattolica, nella cripta dell’Aula Magna, nell’incontro-clou (per la parte parlata) della Settimana Ovale. «Oltre la meta: il rugby in Italia tra racconto mediale, identità e valori sportivi», con giornalisti, editori, esperti di comunicazione e marketing che cercheranno di spiegare come il «prodotto rugby» abbia fatto irruzione nel mondo dell’immagine, e quali siano le sue potenzialità ancora inespresse. E il piatto forte del pomeriggio saranno gli interventi in video di Marco Paolini, l’attore veneto che - senza avere mai giocato a rugby in vita sua - è riuscito ad assimilarne e trasmetterne i valori come mai prima era riuscito a tanti esperti e studiosi della materia.
Il problema del rugby, in fondo, è semplice: è uno sport affascinante nei suoi aspetti «estremi», ma che può essere profondamente noioso nella sua quotidianità. Una partita del 6 Nazioni o della Coppa del Mondo è uno spettacolo avvincente anche per un profano e, all’opposto, un torneo di minirugby con trecento marmocchi che sgambettano e placcano in amicizia può commuovere anche il cuore più duro. Ma una partita della serie A italiana (per non parlare della B o della C) rischia di essere la peggiore propaganda che si possa immaginare per questo sport. In campo si divertono come matti, ma sugli spalti - spesso e volentieri - si sbadiglia.
Così cosa voglia dire davvero «comunicare rugby» è un tema su cui si dovrebbe ragionare a lungo. Senza fare però, alla fine, le cose più complicate di quel che sono: perché, come diceva un tale, «se non vi va di prendere pugni potete sempre giocare a pingpong».

Il resto sono chiacchiere.

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