Cultura e Spettacoli

Sándor Márai l’italiano

Nel secondo dopoguerra lo scrittore ungherese, in fuga dal comunismo, si rifugiò nel nostro Paese. Ambientando a Napoli un libro che è un grande atto d’amore

Sándor Márai l’italiano

Esiste uno Stendhal milanese, un Joyce triestino, un Norman Douglas calabro. Ma uno degli omaggi più belli e commoventi all’Italia lo dobbiamo a uno scrittore riscoperto da alcuni anni. Ci riferiamo all’ungherese Sándor Márai (1900-1989) il quale, grazie a un libro in fondo minore come Le braci, ha ottenuto da morto il successo internazionale che gli era stato crudelmente negato in vita. Ma la bizzarria delle scelte editoriali, se non qualcosa di ideologicamente più sospetto, ha fatto sì che il suo romanzo più autobiografico, uno straordinario atto d’amore verso il nostro Paese, sia uscito, a quanto consta, solo in Germania da Piper, dopo una lontana edizione del 1957 passata sotto silenzio.
Das Wunder des San Gennaro (Il miracolo di San Gennaro) ha veramente del miracoloso per stile e ispirazione, in una produzione che pur vanta altre punte altissime. Se si aggiunge che il libro ha una dedica inconsueta, specie in un autore così segreto, «All’Italia...», si capirà tutta l’intensità di quella vicenda.
Alla fine della guerra, Márai era un autore molto noto in patria e già tradotto in Francia e Germania, di area progressista, inviso al governo autoritario dell’ammiraglio Horthy. Aveva una moglie ebrea ed era stato braccato dalle «Frecce Crociate» nel 1944-45, vicenda trasposta in Liberazione (sia detto a risarcimento delle assurde voci sul suo passato antisemita e filonazista). Aveva quindi tutti i numeri perché il nuovo regime comunista gli facesse ponti d’oro. Decise invece di rompere, rifiutando di servire una dittatura, dopo aver evitato di servire la precedente: «Non voglio un palco all’opera, mentre un mio collega è strangolato in una cella». A differenza di un altro grande intellettuale magiaro come François Fejtö, a lungo collaboratore del nostro quotidiano e recentemente scomparso, che aveva la fortuna di trovarsi già in Francia, Márai fu costretto a peregrinare per l’Europa con mezzi di fortuna.
La sua meta fu l’Italia, Milano e poi Napoli, ove il campo profughi di Bagnoli era divenuto uno dei più grandi centri di smistamento dal vecchio al nuovo mondo. Viveva nascosto con moglie e figlio adottivo nel timore di essere eliminato o rapito. Non è nemmeno sicuro che abbia risieduto nella casa di Posillipo, ove è stata recentemente posta una lapide commemorativa. Oggi si stenta a immaginare quale straordinario crocevia sia stata l’Italia all’indomani della guerra: vi passarono Grisha von Rezzori e René Podbielski, Vintila Horia e Mircea Eliade cercarono invano di trovarvi un lavoro, Stefan Andres accoglieva i rifugiati a Positano e Axel Munthe a Capri, Auden e Spender soggiornavano a Ischia, Vjaceslav Ivanov era ospite di un convento dell’Aventino non lontano da quello in cui si spegneva il filosofo Santayana. E sempre a Roma si aggirava una petulante signora con il capolavoro del defunto marito che nessuno voleva, intitolato L’uomo senza qualità...
Márai è un caso a sé, perché in Italia non solo soggiornò fino alla partenza per New York, ma vi torno a metà degli anni ’60, questa volta a Salerno, «questa città così signorile», ignorato dall’intellighenzia nostrana, dedita a intorbidire il clima degli anni di piombo, ma assistito da amici ed estimatori fra la gente comune. Purtroppo il figlio lo convinse a varcare nuovamente l’oceano, diretto in California, dove si stabilì in un sobborgo di San Diego, senza capire che era troppo vecchio e malridotto per l’American dream. Qui trascorse gli ultimi anni in un’atmosfera di desolazione urbana da uragano Kathrina, l’oceano limaccioso e l’asfalto che s’incolla alle scarpe, chiuso nella libreria comunale, circondato da barboni ed emarginati nei parchi pubblici e negli ostelli dell’Esercito della Salvezza. Rimpianse persino la malasanità italiana, rispetto ai costi stratosferici delle cure mediche che prosciugarono i suoi modesti risparmi. Dopo la morte di moglie e figlio, decise di seguirli, col lucido orgoglio dell’ufficiale austroungarico che non s’arrende alla sconfitta e sa che cosa fare dell’ultima pallottola.
Il miracolo di San Gennaro è un romanzo-saggio molto complesso, ma tra i più scoperti di questo letterato espertissimo, quindi abituato a nascondersi dietro storie e personaggi. Lo sfondo è quello di Napoli, della costiera e delle isole, luoghi incantati pur nella loro povertà di allora, che Márai rievoca in una luce di purezza dionisiaca, «sotto il cielo e di fronte al mare che sono il dono più grande che gli dei abbiano accordato all’uomo d’Occidente», tema di un altro romanzo inedito in Italia, Pace ad Itaca. Descrive un’umanità miserabile, ma ammirevole per dignità e pudore, «perché chi soffre molto non si lamenta», che ne fa una sorta di anti-La pelle di Malaparte, o se volete, di anti-emergenza rifiuti, ma che è anche l’opposto del modello marxista di proletariato. Sul paesaggio senza tempo, irrompe l’attualità politica: Togliatti e De Gasperi, Padre Pio e Benedetto Croce, perfino la voce di padre Lombardi, «microfono di Dio» nelle elezioni dell’aprile 1948. Vi sono poi i quattromila disperati di Bagnoli, sospesi al rinnovo di visti provvisori: il Cile prende solo chi supera il metro e settanta, chi è malato di fegato non può andare in Canada, per il Paraguay bisogna rifare ogni volta raggi X e prova delle urine..., «corpi trasferiti da un piroscafo all’altro, mentre la loro personalità rimane avvinghiata alla vecchia Europa».
A parte stanno i due protagonisti, alloggiati in una villa diroccata: una coppia distinta di mezza età, dagli abiti lisi ma di ottimo taglio, circondata da rispetto e anche qualcosa di più, quando si sparge la voce che forse «il conte» o «il professore» può compiere dei miracoli. In realtà, è uno scienziato che ha lasciato il proprio Paese, e la donna è la sua assistente che lo ha seguito per amore. Mentre la discussione ferve nei bar del paese su come avvicinarlo, l’uomo scompare e il suo cadavere verrà ripescato al largo. Suicidio, malore, regolamento di conti politico?
Parte l’inchiesta, condotta da un vice questore di indole gaddiana, «servitore di quella polizia italiana che è la più vecchia e saggia del mondo». Si cerca una traccia nel povero bagaglio del defunto: una clessidra, la Bibbia, il De Hominis dignitate di Pico della Mirandola, infine una macchina per scrivere con accenti insoliti: «Ungheresi, romeni, polacchi, cechi usano tutti accenti diversi. Insistono a trascinarsi da una frontiera all’altra le loro vecchie e malandate macchine da scrivere perché sanno che senza gli accenti non sono più quelli di prima». Viene convocato un frate francescano con cui «il professore» amava intrattenersi. Poi la sua compagna. Il visto per l’Italia spirava, stavano per essere separati, verso l’Australia lui e gli Stati Uniti lei. Lui le ha chiesto di ucciderlo, dopo uno struggente pellegrinaggio laico ad Assisi e dopo che hanno assistito, perplessi, alla liquefazione del sangue di San Gennaro nel Duomo di Napoli. Di fronte al rifiuto di lei, l’uomo ha deciso di sparire perché sa che i miracoli non esistono e che troppo spesso sono serviti a ingannare le masse. Se esistono i santi, è perché sono fuori dal «sadismo della storia» a cui gli è ormai impossibile sottrarsi.
Questo finale è una catarsi, ma solo provvisoria. Nella realtà, come sappiamo, Márai scelse di partire e iniziare una nuova vita oltre oceano. Si portò dietro la macchina per scrivere e la sua fedeltà ostinata alla lingua madre, alla quale non volle rinunciare, pur sapendo di tagliarsi fuori da una carriera letteraria in Occidente. Allo stesso modo, malgrado le offerte in denaro di cui aveva estremo bisogno, vietò di stampare le sue opere in Ungheria, «finché l’ultimo soldato sovietico non avrà lasciato il paese e vi saranno indette libere elezioni». Ma l’appuntamento era solo rinviato. Una delle ultime annotazioni del diario è ancora per ricordare l’Italia, «dove fummo felici, tra la sua gente così ospitale e cortese». L’ultima, del 15 gennaio 1989, dice semplicemente «È l’ora». Il facsimile del manoscritto mostra una calligrafia tremolante.

Ma quando, pochi giorni dopo, mise in atto i suoi propositi, la mano non tremò.

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