Salute

Ricerca, Italia nella «Top ten» però ancora troppi i tabù

Il prof Martino (San Raffaele): «C'è ritrosia a definirci scienziati, ma la scienza fa parte della nostra cultura»

Gabriele Villa

«Ma si rende conto che quando ci chiedono che lavoro facciamo abbiamo quasi timore a dire che siamo scienziati e rispondiamo: ricercatore? Una ritrosia cui ci ha costretto questo sistema Paese. Stentiamo a qualificarci anche perché non abbiamo un Ordine che ci rappresenta, non abbiamo un Albo professionale, non abbiamo un contratto di riferimento». Classe 1962, direttore scientifico dell'Istituto scientifico San Raffaele di Milano, dal 2017 presidente del Comitato tecnico scientifico della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica, il professor Gianvito Martino è una figura di riferimento nel panorama internazionale della ricerca, ha conseguito negli anni numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Rita Levi-Montalcini, è autore di oltre 250 articoli e pubblicazioni scientifiche.

Ha titoli, dunque. E pieno titolo anche per lasciarsi andare a qualche considerazione amara sulla situazione in cui i ricercatori o, meglio, gli scienziati italiani sono costretti a confrontarsi per svolgere il proprio lavoro. «Il concetto è molto semplice. Fare ricerca oggi significa fare una ricerca che abbia respiro internazionale e che si confronti con il panorama internazionale, dove la competizione è a un livello tale che richiede determinati requisiti. Quindi il nostro sistema Paese deve metterci in condizione di competere in maniera adeguata, deve darci gli strumenti per essere attori in questo scenario internazionale. Il problema è che in Italia questo non succede perché, non solo i fondi per la ricerca sono pochi, ma perché non abbiamo ancora recepito che la scienza fa parte della nostra cultura. Perché noi siamo un Paese a trazione umanistica dove la cultura scientifica non è contemplata, basta vedere le poche ore di scienze nelle scuole. Nonostante ciò riusciamo a cavarcela: la ricerca italiana è straordinaria perché siamo tra i primi dieci Paesi al mondo e non solo perché abbiamo talenti, siamo intelligenti e scaltri ma perché, a dispetto degli ostacoli e della miope visione dei politici d'oggi, abbiamo un retaggio, una tradizione di cultura che, nell'Ottocento ha permesso alla scienza italiana di dominare il mondo».

E in questo scenario come si muove l'Ospedale San Raffaele? «Siamo uno dei più grandi ospedali di ricerca d'Europa, un luogo dove la ricerca clinica si fonda con la ricerca di base e con la formazione universitaria così, pur facendo il doppio dello sforzo, per i motivi che ho esposto poc'anzi, riusciamo a competere con colossi maggiori perché abbiamo focalizzato il nostro traguardo: fare terapie e medicina per far star meglio i nostri pazienti. Medicina traslazionale che poi genera quelle scoperte che si traducono in atti concreti, diagnostici e prognostici. I nostri fronti di ricerca e di impegno in cui ci distinguiamo: cardiovascolare, oncologia, neuroscienze, oncoematologia, immunologia. Siamo un team di circa 1.200 ricercatori a tempo pieno che diventano 1.500 se aggiungiamo quelli che la fanno a tempo parziale».

Ma per eccellere c'è bisogno di aiuti concreti; chi ve li dà, professore? «Come ospedale di ricerca possiamo contare su fondi governativi, e grazie al nostro impegno e ai risultati ottenuti, riusciamo spesso a vincere i finanziamenti internazionali messi a disposizione da Charity e Fondazioni. E un'altra fonte di introiti è il tecnology transfer, cioè quello che noi produciamo e brevettiamo diventa un prodotto che genera ricavi che poi investiamo in ricerca. Senza contare l'aiuto che ci arriva dalle aziende animate da social responsability». Come nel caso di Bmw, «il cui progetto di responsabilità sociale d'impresa SpecialMente sottolinea il presidente e ad di Bmw Italia, Sergio Solero - è una piattaforma che include molte attività e che testimonia come il tema sia radicato nella cultura aziendale. E proprio la nostra cooperazione con Dynamo Camp e Ospedale San Raffaele ha visto nascere un programma di supporto alle sessioni dedicate ai ragazzi colpiti da malattie neurodegenerative che ha consentito di ospitare in questo triennio circa 150 famiglie e ragazzi».

«Pensi se combattessimo ad armi pari con gli altri - conclude Martino - magari non vinceremmo l'oro alle Olimpiadi, ma arriveremmo in finale grazie alla nostra tenacia e alle nostre intuizioni.

Questo è certo».

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