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Ma sbaglia chi evoca licenziamenti a raffica

di Ondata di licenziamenti in arrivo, denunciano in tanti. «Ondata di terrore» nelle famiglie e nelle aziende è la variante splatter che dobbiamo a monsignor Bregantini, dovrebbe investire l’Italia per essersi, molto cautamente, allineata alla legislazione degli altri principali paesi europei in tema di rapporti di lavoro dipendente. E così, solo perché siamo italiani, dovremmo essere dei licenziatori compulsivi. Datecene la possibilità e non passa un minuto che finalmente ci liberiamo dell’odiato dipendente. Il corollario di questa visione è invece nell’eroico ruolo di baluardo dell’occupazione affidato al sindacato. L’idea implicita, insomma, è che finora (o meglio dal 1970 ad oggi perché prima lo statuto non esisteva eppure non c’erano ondate di sorta) i lavoratori italiani dovevano il mantenimento del loro impiego non alle condizioni di mercato, al funzionamento delle imprese per cui lavoravano, alla contrattazione aziendale o alle loro personali capacità e conoscenza dei meccanismi produttivi. No, la ragione era solo la presenza di un articolo di legge e, ovviamente, il presidio sindacale a quella norma. Quanto disprezzo trasuda da una simile visione delle cose. E quanta distanza dal reale mondo produttivo, in cui nessuno, realmente impegnato in azienda, in qualsiasi ruolo, ha mai ragionato in quel modo. Ci sono state in passato, anche in questi ultimi duri anni di crisi, ondate di licenziamenti nelle imprese con meno di 15 dipendenti (esentate, finora, dall’applicazione integrale dello statuto)? No, anzi. Pur scontando il limite di quota 15, anche a costo di non prendere commesse e ordini, le piccole imprese hanno offerto una possibilità di mantenimento dell’occupazione totale. Cosa è successo invece, pur vigente lo statuto, in tante altre situazioni aziendali? Sono arrivate sì lettere di licenziamento in massa, ma dopo aver comunicato lo stato di crisi e quindi aver stabilito la chiusura definitiva degli stabilimenti produttivi. Questa è sempre stata la procedura, non certo il licenziamento individuale per motivi economici. Quanti imprenditori, spacciati anche per grandi fenomeni, sono andati avanti comprando, smembrando, rivendendo a pezzi, ristrutturando attraverso gli stati di crisi e quindi licenziando? Certo, non si sono mai imbattuti nell’articolo 18 perché licenziavano in massa, tutto in un colpo, stato di crisi e via (oppure usavano quei meravigliosi scivoli verso la pensione, a carico di tutti i contribuenti). La flessibilità in entrata, cioè la possibilità di essere assunti senza dover stabilire una specie di matrimonio ottocentesco, è l’unica via proprio per aiutare quei lavoratori che incappano nelle gestioni aziendali rapaci appena accennate. Le crisi aziendali, usate per chiudere stabilimenti ed espellere dipendenti (e quante ce ne saranno, quella è la vera ondata) possono essere compensate solo da un mercato del lavoro più dinamico. Si esce da un’azienda e si entra in un’altra, come avviene nei paesi normali. E al sindacato resta da fare davvero il suo lavoro. Rappresentare interessi, negoziare salari e gestire le crisi congiunturali. Una per una, secondo le specificità di ciascuna crisi aziendale. Certo, è più facile e ideologicamente più appagante fare i difensori dello statuto e affidarsi alle sue tutele automatiche. Ma il sindacato che si affida alle tutele della magistratura (come avviene con la difesa del posto attraverso l’articolo 18) assomiglia alla politica che delega il suo ruolo alla magistratura.

E così si è detto tutto.

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