Schengen, l’adesione della Svizzera non cambia nulla

Alberto Indelicato

Il referendum con cui gli svizzeri hanno accettato di entrare nel «sistema Schengen» è stato salutato come una boccata d’ossigeno per una Europa tramortita dai precedenti referendum francese e olandese.
Vedete - è stato detto - gli svizzeri, così cauti e razionali, hanno fatto un passo verso un maggior coinvolgimento con l’Unione Europea, essi in certo modo hanno dato una lezione d’apertura e di tolleranza. Insomma l’Unione sarebbe un po’ come il matrimonio da cui chi è dentro vorrebbe uscire e in cui chi è fuori vorrebbe entrare.
Siffatte conclusioni sono un po’ affrettate. Intanto Schengen non è l’Europa. Non ne fanno parte Gran Bretagna e Irlanda oltre ai dieci nuovi membri, mentre vi aderiscono Norvegia e Islanda, che di entrare nell’Unione Europea non hanno alcuna intenzione.
In secondo luogo l’adesione svizzera al sistema, che entrerà formalmente in funzione non prima di due anni, non cambia nulla: le frontiere della Confederazione sono da molti anni le più aperte del mondo, come ben sanno tutti i turisti italiani, a cui molto raramente viene chiesto di mostrare il passaporto al momento di entrare.
In terzo luogo il sistema Schengen è bloccato almeno dall’11 settembre 2001, come altrettanto sanno gli stessi turisti, che si recano in uno degli altri dodici stati che hanno sottoscritto il trattato relativo.
Perché allora tanta euforia per il responso popolare elvetico? Perché considerare anche la decisione sulle unioni omosessuali, che con l’Unione Europea non ha nulla a che vedere, come un sintomo di europeismo?
Perché esaltare le virtù della democrazia diretta svizzera dopo aver mostrato scarsa considerazione per l’intelligenza degli elettori dell’Unione?
La spiegazione è semplice: i dirigenti europei cercano non solo di consolarsi, ma principalmente di distrarre l’opinione pubblica dal vero problema che essi devono affrontare e che può riassumersi in due parole: che fare?
In teoria la risposta si trova proprio nel testo del trattato «costituzionale», che prevede una riunione del Consiglio europeo in caso di una sua mancata approvazione da parte di almeno cinque membri. E se i «no» nazionali fossero quattro, tre o due o anche uno, si farebbe finta di niente?
Ma, a prescindere dall’imbroglio derivante dal fatto che quella norma è inapplicabile perché farebbe parte di un trattato non in vigore, la soluzione sembra piuttosto evanescente. Perché il Consiglio europeo si riunisca, infatti, non c’è bisogno di nessun trattato.
La norma tace invece sull’unica indicazione importante, cioè se il trattato debba considerarsi morto, ferito o soltanto in stato di morte apparente. Il consiglio europeo del 16 giugno sarà forse come il consulto dei medici di fronte a Pinocchio impiccato? Ci diranno che se il morto non è morto è segno che è vivo e viceversa?
Intendiamoci. Il morto-vivo non è l’Europa e neppure l’Unione Europea.
È soltanto il «trattato», le cui virtù non sono apprezzate dagli elettori europei per ragioni che i loro dirigenti ed i membri della Commissione dovrebbero cercare di comprendere.

Il che non hanno fatto e purtroppo non sembrano intenzionati a fare.

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