Politica

Lo scippo del Corriere, ecco perché Rizzoli rivuole il suo giornale

Angelo, prosciolto dalla Cassazione, chiede 650 milioni di danni e contesta il passaggio del quotidiano alla cordata Gemina-Bazoli. L'ingresso in via Solferino, nel 1974, fu per la famiglia l'inizio della disfatta

Lo scippo del Corriere, ecco perché Rizzoli rivuole il suo giornale

Quella che segue è una storia incredibile, favolosa. È la storia di uno scippo, ma è anche la vicenda umana di una famiglia che ha saputo distruggere la sua fantastica ricchezza nel giro di pochi anni. È la storia dei Rizzoli, dei tipografi che si fanno editori, del martinitt che diventa conte, dei poveracci che si scoprono miliardari. È la storia di un giornale, il Corriere della Sera, che a seconda di chi lo compra ha un valore diverso: altissimo quando lo acquistano i Rizzoli, vile per gli Agnelli. È una storia già scritta in tanti libri che hanno raccontato molto di ciò che si doveva sapere della Erre Verde (il più completo è il testo di Alberto Mazzuca). Ma è anche una vicenda che non si è ancora chiusa.
Molto, se non tutto, ruota intorno alla sciagurata decisione della famiglia di portarsi a casa all’inizio degli anni ’70 la proprietà del Corriere della Sera. E oggi Angelo Rizzoli, dopo 26 anni dalla sua cessione, lo rivuole indietro e ha avviato una causa per un risarcimento danni monstre di 650 milioni di euro.

LE ORIGINI

Angelo Rizzoli, il fondatore, lo aveva sempre detto. Anzi lo aveva confidato al proprio autista: «È nata la terza generazione, quella che manderà in rovina tutto quanto. Io costruisco, mio figlio mantiene, i nipoti distruggeranno. È una regola». Non sarà così semplice e non sarà forse così vero. Quelle che contano in questa storia sono le A: quella di Angelo, il fondatore, il Cummenda (come tutti lo chiamavano e continuano a chiamarlo); quella di Andrea il figlio; quella di Angelo jr o Angelone e Alberto, i nipoti. Certo di mezzo ci sono tante donne: parenti, figlie, amanti e attrici. E avranno come è ovvio una grande parte nella storia di questa dinastia, ma ai nostri fini hanno un ruolo laterale.

Angelo, partendo dalla casa degli orfanelli è finito conte, per di più in epoca repubblicana, per un appartamento donato all’Unione monarchica. Alla fine degli anni ’50 la piccola tipografia di Angelo Rizzoli è diventata una casa editrice tra le più importanti in Italia. La tiratura dei periodici Rizzoli sfiora quota tre milioni. E poi i grandi marchi di successo: Novella, con cui parte la fortuna nel 1919 e che negli anni diventerà 2000, Oggi, che per lungo tempo si voleva fare quotidiano, l’Europeo, Candido, Sorrisi e Canzoni e tanti altri. Il tocco di Angelo sembra d’oro. Si fanno quattrini persino con la Bur. L’idea era per l’epoca folle (siamo nel 1949): pubblicare i grandi classici in edizione povera e a poco prezzo, 50 lire per ogni cento pagine. Il successo fu tale che si pubblicarono quasi tremila titoli. Anche il Cinema portò quattrini e fortuna alla Rizzoli. Grandi successi: dalla Dolce Vita a Don Camillo e Peppone. E quella incredibile gita di Chaplin a Ischia (che Angelo aveva scoperto come località turistica e che con Rizzoli sembrava Beverly Hills quanto a frequentazioni) per la prima continentale di Un re a New York.

Rizzoli nasce povero, ma ambizioso. Sono due le sue caratteristiche principali. La prima, che non riesce minimamente a trasferire ai suoi eredi: mai un debito, mai una cambiale, mai un prestito. C’è un tratto che invece passa per le tre generazioni e che nel ventennio fu definito il «rizzolismo»: la capacità di fare affari a destra e a sinistra, di stare in mezzo non già perché si creda nella media, ma perché è la strada più breve per spostarsi da una parte o dall’altra. Angelo avrà solo un grande amico nella politica: Nenni. Ma non i socialisti.

LA FISSAZIONE

Un quotidiano è sempre mancato alla Rizzoli. E anche Angelo, il Cummenda, ne sentiva il vuoto. All’inizio degli anni ’60 si mette in contatto con i Crespi, allora proprietari del Corriere della Sera. L’idea era piuttosto ambiziosa: mettere insieme i periodici Rizzoli e il quotidiano di via Solferino e realizzare un cartello sulla raccolta pubblicitaria. «Il Cummenda mi disse - ricorda Indro Montanelli - che i Crespi lo misero alla porta con arroganza poiché non lo ritenevano alla loro altezza. E da quel momento si mise in testa di fare un quotidiano suo». Angelo aveva già tutto pronto in testa. Da immaginare la scena del martinitt che interpella Montanelli e gli dice: «Vieni a fare il direttore del mio nuovo quotidiano. Si chiamerà Buondì, così quando ci si presenta all’edicola verrà automatico comprarlo». Alla fine la ragionevolezza porterà la scelta su un marchio di fabbrica che è stato il best seller dei periodici Rizzoli nel dopoguerra: Oggi. Sul tetto degli stabilimenti fu così issata un’insegna che continuò a mostrarsi anche quando il progetto ero bello che affondato: «Oggi, il quotidiano di domani». Nonostante le prime assunzioni (Granzotto, Afeltra, Barzini), Oggi, il quotidiano di domani, non uscì mai in edicola, anche se si realizzarono decine di numeri zero. Nel frattempo ci fu un tentativo di stampare la Notte di Nutrizio (grande amico dei Rizzoli) negli stabilimenti della Erre Verde, e un abboccamento prima con Enrico Mattei e poi con Eugenio Cefis per comprare dall’Eni il Giorno. Si provò invano e più tardi anche con il Messagero e il Tempo.
Quando nel 1970 il Cummenda muore lascerà agli eredi un patrimonio valutato cento miliardi di lire, zero debiti, due pagine del Corriere zeppe di necrologi, ma nessun quotidiano.

IL CORRIERE DELLA SERA

Chi ha deciso veramente l’acquisto del Corriere della Sera? Chi ha detto l’ultima parola? Chi l’ha voluto davvero? Quando il sogno, o l’inizio dell’incubo, si realizza nel 1974, sono solo due i possibili indiziati: padre e figlio. Andrea e Angelone saranno evidentemente complici in questo passo. Alberto il fratello, che poi dopo cinque anni uscirà completamente dal gruppo di famiglia, è stato sempre il più immune alla malattia di via Solferino.

Andrea comanda in azienda così come il padre, con un piglio da monarca. Suo figlio Angelo, a 28 anni, è già il delfino designato e viene nominato amministratore delegato. Mica male. Quando si parla di queste vicende conviene sempre riflettere sulla giovane età in cui furono catapultati al vertice i ragazzi Rizzoli. All’epoca dell’acquisto del Corsera, il gruppo impegnava circa 5mila dipendenti, realizzava una sessantina di miliardi di fatturato, e circa sei di utili: aveva un quinto del mercato dei periodici e circa il 10 per cento dei libri. Aveva una prima linea di manager compatta, tra cui il giovane e «disinnescato» Tassan Din (un direttore finanziario per un’impresa con pochi debiti, ha poco peso). «Ho comprato il Corriere della Sera perché l’azienda è granitica» disse in un’intervista sul suo Europeo, Andrea. Non era proprio così. A tre anni dalla morte del Cummenda si manifestarono i primi debiti: una ventina di miliardi. Sopportabili, ma una novità in casa Rizzoli. Non in casa di Andrea per la verità: da presidente del Milan conquistò successi unici, la prima Coppa dei Campioni, ma anche la prima esposizione finanziaria con in calce la firma Rizzoli.

Andrea inoltre è tutto preso dal suo nuovo e appassionante amore con Ljuba Rosa e il suo cuore fa le bizze: nei momenti clou delle trattative viene ricoverato in gravi, gravissime condizioni in ospedale. I Crespi non sono più soci unici, ma comandano, e hanno diritto di vita e di morte sul quotidiano. Con quote paritetiche nel capitale (ciascuno ha il 33 per cento) ci sono anche i Moratti e gli Agnelli, come semplici soci finanziatori. È da qui che parte l’attacco dei Rizzoli. All’epoca il Corriere era già pieno di debiti, con i conti in rosso, e con un sindacato che comandava. In Rizzoli il ’68 non era ancora arrivato, in via Solferino invece c’erano Ottone, Fiengo e i comitati di fabbrica. Montanelli, che nel frattempo era uscito bruscamente dal Corriere, li aveva avvertiti: «Ci sbatterete il muso» e li aveva anche invitati, senza successo, a diventare editori del suo (e nostro) Giornale. Niente da fare.

I primi a cadere saranno dunque i Moratti e gli Agnelli, inclini a cedere una partecipazione che oltre a costare molto, non rendeva, politicamente, nulla. A quel punto sono costretti a cedere anche i Crespi. Il primo assegno da 27 miliardi di lire, a metà luglio del 1974, viene staccato a favore di Giulia Maria Crespi. Con la zarina fuori, si comanda al Corriere. La sua è la quota con diritti assoluti, è quella a cui lo statuto riconosce di fatto la conduzione unica ed esclusiva dell’azienda. È l’epoca, come diceva Cuccia, in cui le azioni non si contavano, ma si pesavano. Ma Andrea Rizzoli va avanti, dopo pochi giorni si porta a casa anche il 33 per cento dei Moratti per 14 miliardi: il Corriere è vinto. Con il 66 per cento del capitale e la quota ex Crespi, a questo punto non ci sarebbe più bisogno della fetta Agnelli.

E qui si commette il primo grande errore di ingordigia. Nonostante una parte della famiglia non volesse, la Rizzoli si impegna a comprare anche la quota Agnelli. L’annuncio della cessione per 13 miliardi è fatto subito, ma il pagamento sarà dilazionato a tre anni: nel 1977. Il saldo finale sarà vicino ai 100 miliardi. Molto più del previsto. Ma soprattutto molto peggio del previsto saranno le condizioni di salute del quotidiano. I Rizzoli lo comprarono al buio, e nel primo anno le perdite previste in 4 miliardi si rivelarono quattro volte tanto. A soli 5 anni dalla morte del Cummenda gli eredi violano il caposaldo della sua filosofia: si riempiono di debiti, ne hanno più di cento miliardi. In compenso hanno una casa editrice molto più influente, politicamente preziosa, diecimila dipendenti, un quinto del mercato dei quotidiani, quasi la metà di quello dei periodici e il 10 per cento di quello dei libri. Sono una potenza: dai piedi di argilla.

LA P2 E LA TRAPPOLA

Quello che succede nei mesi che seguono è l’inizio della fine per i Rizzoli. Due sono le rivoluzioni in corso. La prima è quella finanziaria: il gruppo è lentamente consumato dai suoi deficit che raggiungono i 4 miliardi al mese. Di pari passo una figura marginale all’interno del gruppo, quella del direttore finanziario, Tassan Din, diventa chiave. Saranno Tassan Din e Angelo a fare il giro delle sette chiese romane per cercare disperatamente finanziamenti da parte del sistema bancario. Saranno a tal punto a corto di liquidi che metteranno infine in vendita le proprietà immobiliari di Ischia. È intorno a questa vendita che si verifica il contagio con la P2 e con l’avvocato democristiano che ne fu il primo punto di contatto, Umberto Ortolani. Con il Corriere sanguisuga, con gli interessi che corrono e con gli immobili di Ischia bloccati, Ortolani apparirà come una via d’uscita. Da una parte permetterà la vendita del complesso alberghiero costruito dal Cummenda e dall’altra in una stanza dell’Excelsior di Roma presenterà Angelo e Tassan Din a Licio Gelli, gran maestro venerabile della P2. Sono gli anni della follia, le banche, soprattutto l’Ambrosiano di Calvi, iniziano ad aprire i cordoni della borsa. Di pari passo la Rizzoli, non paga della sua insicura situazione finanziaria, inizia una politica di espansione che alla fine si rivelò giovare solo all’aumento del potere interno di Tassan Din e degli uomini della P2. La famiglia Rizzoli è ormai cotta, Andrea, il padre, sempre più distaccato e malato a Cap Ferrat, Angelo invischiato nella rete piduista, Alberto, con un piede già fuori dall’azienda di famiglia. Il colpo finale avverrà con il pagamento della quota Agnelli. Di quel superfluo 33 per cento del Corriere, che i Rizzoli si erano impegnati a comprare nel 1974 e che nel 1977 comportava un esborso di 22 miliardi. Impegno maledetto, che aveva diviso la famiglia tre anni prima, e che soprattutto nessuno era più in grado di onorare. Tanto meno l’azienda che nel 1976 aveva chiuso il bilancio con 20 miliardi di perdite e 105 miliardi di prestiti bancari. La soluzione viene trovata da Gelli-Ortolani-Calvi: è la trappola. In buona sostanza il Banco Ambrosiano di Calvi fornisce alla Rizzoli 20 miliardi, sotto forma di un aumento di capitale.

Ovviamente non lo fa gratis. Ottiene in cambio dai Rizzoli l’80 per cento delle quote del gruppo. Come dire con 20 miliardi la P2 e l’Ambrosiano si portano a casa il primo gruppo editoriale italiano. Non è per la verità così semplice. Su questo pacchetto di azioni, la famiglia Rizzoli ha un diritto di riscatto dopo tre anni, al valore già fissato di 35 miliardi. I Rizzoli per pagare il debito agli Agnelli, ipotecano pesantemente le loro quote in azienda. È un continuo spostare in avanti il redde rationem.
Ricapitolando: nel 1974 comprano il Corriere. Ma si lasciano un debituccio con gli Agnelli, da saldare nel 1977. Dopo tre anni non sono più in grado di far fronte ai loro impegni con la famiglia torinese. E a questo punto cedono l’azienda, con l’arrière pensée di ricomprarla dopo alcuni anni. L’impegno originale di 14 miliardi è così lievitato a 35 e soprattutto la famiglia Rizzoli ha perso il controllo del gruppo. Rizzoli e Corriere della Sera vengono di fatto eterodirette, Tassan Din diventa direttore generale e il giovane Angelo prende il posto del padre, ma con scarsissimi poteri. Ciò che nessuno sa all’esterno, il passaggio della maggioranza della Rizzoli a misteriosi investitori e la fine del potere della famiglia, in azienda si nota. Resta il problema di un gruppo che nonostante le sue dimensioni continua ad avere una posizione debitoria con le banche insopportabile. In questo contesto nasce il cosiddetto Pattone o il patto BLU (dalle iniziali dei nomi di chi lo pensa e lo sottoscrive Bruno Tassan Din, Licio Gelli e Umberto Ortolani). L’accordo non comprende i Rizzoli, e come vedremo, fa scattare la molla della trappola. In una certa misura, soprattutto grazie alle dismissioni e alla possibilità concessa dalla politica di aumentare finalmente il prezzo dei quotidiani, le cose vanno migliorando dal punto di vista industriale. Ma non a sufficienza per ripianare i debiti e per fornire ai Rizzoli le risorse per riscattare la loro quota dell’80 per cento. Il meccanismo che viene limato e limato alla fine prevede il solito aumento di capitale della Rizzoli: questa volta da 150 miliardi. In più la Centrale, braccio operativo dell’Ambrosiano, si comprerà alla luce del sole il 40 per cento della Rizzoli, fornendo così i quattrini ai Rizzoli sia per pagare i 35 miliardi necessari al riscatto del loro vecchio 80 per cento, sia per sottoscrivere pro quota l’aumento di capitale. Ebbene come si vedrà in seguito è la mossa che definitivamente inguaia la famiglia. L’aumento di capitale si rivelerà un falso: non una lira entra in Rizzoli. Formalmente sembrerà tutto a posto: viene comunicato al pubblico e annotato in azienda. Si tratta di un complicato castelletto di menzogne, dove alla fine i quattrini che escono in effetti dall’Ambrosiano vanno a finire sui conti personali dei BLU. Una serie di manovre che vengono fatte proprio in coincidenza con l’emergere delle liste P2 e la conseguente fuga di Gelli. Per i Rizzoli la storia in Rizzoli è finita. Angelo (insieme al fratello Alberto ormai da tempo fuori dal gruppo) fu sbattuto in galera e solo dopo 26 anni una sentenza della Cassazione lo ha riconosciuto definitivamente innocente rilevando come il crac, che poi è seguito, della casa editrice, sia stato cagionato tra l’altro da quest’ultimo clamoroso ladrocinio.

IL RITORNO DEGLI AGNELLI

La saga dei Rizzoli finisce dunque quando finalmente recuperano fisicamente l’80% delle azioni che erano state cedute tramite Calvi e di queste si gira il 40% alla Centrale. Si dovrà pazientare qualche giorno: le azioni erano finite in Vaticano (che per tutti quegli anni era stato dunque formalmente l’azionista occulto e di maggioranza della Rizzoli) nella cassaforte dello Ior: però il custode delle chiavi, il vice di Marcinkus, era in galera per l’affaire Sindona. Questo era il pasticcio in cui si erano ficcati i nipoti del Cummenda. Quando il 7 agosto 1982 il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia creano il Nuovo Banco Ambrosiano (Nba) che eredita attraverso la società Centrale anche il pacchetto del 40% di Rizzoli, i nodi vengono al pettine. Il nuovo presidente del Banco, Giovanni Bazoli, mette al muro il gruppo: chiede l’immediato rientro dei fidi, pari a 70 miliardi. Ma nel frattempo sembra dimenticarsi che il Nba ha ereditato anche la Centrale con tutte le sue posizioni giuridiche. Tra cui un debito della Centrale (e dunque del Nba) di 150 miliardi mai onorati nei confronti sia del gruppo Rizzoli sia di Angelo, per l’aumento di capitale dell’81 sottoscritto ma mai versato. La Rizzoli in questo modo schizofrenico si vede contestati i propri debiti e non già riconosciuti i propri crediti. Sarà questo il centro dell’azione legale intrapresa in questi mesi da Angelo Rizzoli. La società infatti in questo modo è cotta e finisce in amministrazione controllata e Angelo in galera per bancarotta fraudolenta, con la sua quota della Rizzoli (il 50,2%) sequestrata dai custodi giudiziari. Il teorema è semplice: Rizzoli ha occultato i quattrini che l’Ambrosiano ha versato in azienda dopo l’aumento di capitale. Falso, come dimostra una recente sentenza della Cassazione: quei miliardi non arrivarono mai sui conti Rizzoli, ma sui depositi esteri di BLU. Angelo ritorna libero nel 1984: la Rizzoli ha recuperato vigore ma è troppo tardi. Il 4 ottobre del 1984 Angelo è di fatto obbligato a vendere la sua quota e dunque il Corriere della Sera a un gruppo di investitori che comprende la Fiat, Mediobanca, Montedison, l’industriale Arvedi e la finanziaria Mittel di Bazoli, per il prezzo scontato di 9 miliardi di lire. Facendo un conto un po’ grossolano gli Agnelli avevano venduto nel 1974 un terzo del solo Corriere della Sera a una cifra tre volte superiore a quanto valesse dieci anni dopo l’intero gruppo Rizzoli.

Evidentemente il prezzo di vendita del gruppo nel 1984 era più che da saldo. Pier Domenico Gallo, all’epoca direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, nel bel libro Intesa San Paolo, si duole di questa vendita. «Conveniva, dal nostro punto di vista, convertire i debiti che Rizzoli aveva con il Banco in azioni... mi ero convinto che la Rizzoli potesse costituire un grande valore potenziale per Nba e per i suoi azionisti». Non gli fu permesso. In realtà le direttive del Cicr non permettevano alle banche di avere la proprietà di un quotidiano. Regole che però valevano a corrente alternata: qualcuno si era dimenticato del Mattino in mano al Banco di Napoli. Senza considerare come queste stesse norme non furono evocate per la clamorosa presenza di Mediobanca nella cordata che poi sfilò il Corriere ai Rizzoli. Ma la verità è che evidentemente c’erano altri progetti. Gallo si stupisce inoltre: «È abbastanza singolare pensare come in quel momento nessun gruppo imprenditoriale italiano, a parte la cordata Fiat-Mediobanca, capisse la bontà dell’affare facendo un’offerta formale alternativa». Entriamo in Rizzoli per disinfestarla, dirà l’avvocato Agnelli, a conclusione dell’affare. «Io - confida onestamente Gallo - e tutti quelli che avevano lavorato alla ripartenza della casa editrice negli ultimi due anni, consapevoli del grande affare fatto da Torino, fummo sconcertati e disturbati».

Un senso di sconcerto e di disturbo che oggi deve sentire a maggior ragione Angelone, Angelo jr, il figlio di Andrea, il nipote del grande Cummenda, solo a ripensare alla storia di questo clamoroso scippo.

Commenti