Se a Prodi basta un gioco di parole

Nello staff di Romano Prodi si manifesta una certa euforia da decisionismo. In effetti il premier ha accennato a qualche mutamento tattico nella guida, sempre perigliosa, del suo governo. Anziché prendere tempo, col rischio di far marcire i problemi, Prodi ha preferito, negli ultimi tempi, le soluzioni rapide che hanno il vantaggio di mettere tutti dinanzi al fatto compiuto, o di qua o di là, se no tutti a casa. Si citano la conclusione della crisi sulla politica estera, e l’accordo raggiunto sulle coppie di fatto.
Tutto bene, resta il fatto che i risultati raggiunti, nei casi citati, sono fatti di accordi sulle parole, tutto resta uguale a prima. Per la politica estera, dinanzi alle preoccupazioni di Napolitano per il voto farsesco di una settimana fa, quando i senatori dell’Unione sono riusciti a votare contro il governo sulla base di Vicenza, si è trovato più comodo innestare la polemica su una lettera degli ambasciatori che chiedevano rassicurazioni sugli impegni dell’Italia in Afghanistan, ove si teme per la primavera una offensiva dei Talebani. All’arrivo della lettera, è nato il balletto dell’irrituale, parola rimbalzata da Parisi a Prodi, a Fassino, tutti a ripetersela perplessi, nessuno a cercar di capire di che si trattasse. È toccato a D’Alema rompere l’incantesimo: ma che irrituale, è una «ingerenza» bell’e buona. E il passaggio dalla parola irrituale a ingerenza è parsa a tutti risolutiva, l’onorevole Giordano (Prc) ha fatto il giro dei Tg per dire che il governo, nel respingere l’ingerenza di Bush aveva operato la vera «discontinuità» da Berlusconi, ma pensa un po’. Restano, è vero, le preoccupazioni alleate per il ruolo che possiamo giuocare, o no, in l’Afghanistan. E invece no, importante è il consenso sulla parola ingerenza. Disse bene una volta Spadolini: «Qui contano le parole, il resto sono chiacchiere».
Le maniere spicce hanno messo pace, per ora, anche sui Pacs. Prodi ha affrettato i tempi, ha chiamato a Palazzo Chigi la Pollastrini e la Bindi, ha sottoposto il loro lavoro al Consiglio dei ministri, prendere o lasciare. Ne è venuta fuori una mediazione che da tutte le parti, dai laici, dagli «zapateristi», da Luxuria, alla Bonino ma anche dai cattolici è stata definita «al ribasso», con relativo lancio di sinistri appuntamenti alle Camere perché lì «la legge può migliorare». Ancora una volta, sembra decisivo il ruolo delle parole, dai Pacs ai Dico.
Restano al solito i problemi, molti vengono dal mondo cattolico. Contro i cosiddetti Teo-dem, Binetti, Carra, si è mosso nella Margherita il rullo compressore che Baget Bozzo definisce dei «cattolici democratici» laddove il termine democratici sta da sempre a definire i «compagni di strada». In effetti, impressiona la mobilitazione degli ex-popolari, che sarebbero poi gli eredi della vecchia sinistra Dc, i quali in sessanta hanno sfornato un documento nel quale si invitano i dubbiosi a non fare storie: c’è da salvare il governo, primum vivere.
Resta, fra i cattolici impegnati in politica, come si diceva una volta, il dissenso di Mastella, astenuto in quanto assente dal Consiglio dei ministri. È una scheggia che può fare male. Nel fuggi fuggi e nel vuoto lasciato dai cattolici della Margherita, Mastella può concepire una operazione politica ambiziosa. Anche perché da Ceppaloni giura che il dissenso non può rientrare, sulla famiglia lui e il suo partito andranno fino in fondo. Mastella può nutrire, e magari nutre, il disegno politico di coprire il vuoto cattolico a sinistra cercando altrove spazi nei quali muoversi. L’uomo è politicamente accorto, come è per i politici italiani resta da vedere se gli basterà l’animo. Per la prima volta, però, confesso di avvertire un barlume di curiosità.
a.

gismondi@tin.it

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