Se il Professore ammette di essere un leader a metà

Francesco Damato

Penso che dai banchi delle opposizioni abbiano ora tutto il diritto di rivolgersi a Romano Prodi nei dibattiti parlamentari, ogni volta che riescono a trovarselo di fronte, con la formula riduttiva ch’egli stesso si è attribuita di recente: signor mezzo primo ministro. Sì, mezzo nel senso di metà.
Non so, francamente, se anche in cattedra, facendo lezioni o interrogando gli studenti, Prodi si sia mai sentito professore solo a metà. O, quando guidò l’Iri, peraltro da lui stesso paragonato al Vietnam devastato dalla guerra, si fosse sentito mezzo presidente e basta, tanto da perdere la cognizione del valore della Sme cercando di svenderla a Carlo De Benedetti. O, quando partecipò alla famosa seduta spiritica sul rapimento di Aldo Moro, si fosse sentito solo mezzo presente, per cui scambiò una strada romana di nome Gradoli per un paesino omonimo in provincia di Rieti. Dove il povero Francesco Cossiga si affrettò a mandare dal Viminale centinaia di poliziotti armati sino ai denti alla ricerca dell’ostaggio delle Brigate Rosse e dei responsabili del suo sequestro, che stavano invece nella Capitale non dico indisturbati, perché Moro tranquillo sicuramente non era, ma quasi. Ma adesso di sicuro si può dire che Prodi si senta solo un presidente del Consiglio dimezzato, avendo lui stesso confessato all’estero davanti a centinaia di giornalisti - mentre a Roma esplodevano i suoi rapporti con l’opposizione, con gli alleati, con gli industriali e persino con il Parlamento, affollato di «matti» che reclamavano un suo intervento in aula sull’affare Telecom - di guidare una così poca omogenea e affiatata coalizione di governo da poter dedicare solo la metà del suo tempo a fare il presidente del Consiglio. Nell’altra metà egli deve fare «l’assistente sociale» dei suoi ministri, sottosegretari, segretari di partito, vice segretari, capigruppo, capicorrente e frattaglie varie.
Se poi consideriamo che tra sonno, bisogni corporali, pasti ed esercizi fisici, ai quali saggiamente il nostro è abituato per sentirsi in forma, se ne va via almeno un terzo della giornata, in realtà quel mezzo presidente del Consiglio si riduce ancora di qualcosa. La metà, o poco meno, è del resto una quantità che perseguita Prodi da quando imperscrutabili circostanze lo hanno portato ai piani alti della politica, pur non disponendo egli di un partito. Arrivato a Palazzo Chigi già nel 1996 con l'intenzione di rimanervi almeno cinque anni, fu sfrattato dopo due e mezzo con una rocambolesca votazione di fiducia alla Camera, peraltro da lui stesso voluta per quanto sconsigliata da alleati o amici che evidentemente sapevano fare meglio di conto. Cadde, poveretto, per un voto. E gli furono negate le elezioni anticipate che anche allora reclamava a gran voce.
Rimessosi in pista per tornare a Palazzo Chigi quest’anno, il nostro affrontò la campagna elettorale sbandierando un vantaggio di dieci punti, o quasi. In realtà, ha vinto alla Camera per soli e controversi 24 mila voti, pari a meno di un decimo di punto. E al Senato il suo governo deve reggersi sulle stampelle dei senatori a vita, che sono lì non perché eletti ma perché ex presidenti della Repubblica o da questi ultimi nominati quand’erano al Quirinale.


«Poveretti, pensano di avere veramente vinto le elezioni», diceva incredulo qualche giorno non Silvio Berlusconi ma il diessino Cesare Salvi lamentando la disinvolta gestione dell’affare Telecom da parte del mezzo primo ministro e dei suoi collaboratori.

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