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La seconda vita delle vedove: allegra e guerriera

In Cecenia diventano kamikaze, in Congo bottino di guerra, in India esuli. In Usa invece si rifanno una famiglia: molte mogli dei pompieri dell'11 settembre si sono risposate con i colleghi. Le donne afghane invece sono rimaste in11mila. E in Ruanda ridisegnano il mondo

La seconda vita delle vedove: allegra e guerriera

Latricia ha avuto un bambino l’ultima domenica di aprile. Lo ha chiamato Wilfred, come il papà. Jill invece ha battezzato il suo Nathaniel, il nome che lei e il marito avevano scelto prima che lui partisse per l’Irak. E a settembre Shauna ha dato alla luce Kylee: «Io volevo chiamarla Michaela ma Patrick odiava quel nome». Sono centinaia, tutte giovani, alcune ancora ragazzine. Ma già vedove, vedove di guerra. Vanno agli appuntamenti dal medico accompagnati solo dalla madre o tornano da scuola mano nella mano di un bambino che non troverà più l’abbraccio di un papà. Il governo americano assegna loro un sussidio immediato di 6mila dollari, poi 948 dollari al mese più 237 per ogni figlio minorenne «ma io vorrei solo riavere indietro la mia vita» dice Shauna con un sorriso a metà, triste triste.
Anche Natasha Loginova era incinta quando il suo Seriozha partì per quella missione segreta. Prima di imbarcarsi volle concedersi un’oretta di riposo, a casa sua, con la sua donna. Ma si svegliò di colpo, tutto sudato: «Aveva avuto un incubo terribile: mi aveva vista correre e piangere, lo stavo cercando al porto, ma lui non c’era più». Poi Seriozha, con i suoi 117 compagni d’avventura, salì a bordo di un meraviglioso sottomarino nucleare, il fiore all’occhiello della marina sovietica: il Kursk, direzione mare di Barents, a 150 metri di profondità. Natasha non era sposata con Seriozha, non ha diritto al sussidio statale né per sé né per la piccola Vadya. Ha cercato, come tutte, la verità su quelle morti ma alla fine non ha trovato neppure di che vivere.
Quando nell’altrà metà del cielo si fa buio ci sono orizzonti che scompaiono all’improvviso e cose che si vedono sotto tutta un’altra luce: in Cecenia le vedove diventano kamikaze, in Congo bottino di guerra, in Colombia mogli coraggio, in India fuoco che arde sopra una pira. Le vedove hanno tutte la stesso viso un po’ perduto, ma è la rabbia nello sguardo che le fa diverse. Sharna per esempio ha la testa rasata perché le è vietato pettinarsi e gli occhi sempre bassi. Da quando lui non c’è più vive sola, di elemosina e preghiere. Ce ne sono diecimila come lei a Vrindavan, la città delle vedove, 150 chilometri da New Delhi, ripudiate dalla famiglia, fuorilegge, in balia dei lupi. Colpevoli di essere sopravvissute al marito e condannate a una vita senza vita, ferme per sempre in un altro mondo senza tempo. Perché chi perde il marito non ha più il diritto di considerarsi un essere umano. Suraya invece ha appena fatto vent’anni ma nasconde lo sguardo dietro gli occhiali a specchio. Ha il velo islamico e le unghie laccate. Da quando lui non c’è più si è rifugiata nella giungla, con una mimetica addosso e un kalashnikov a tracolla, ce n’erano sono quasi duemila nelle foreste a nord dell’isola di Sumatra, prima che il terremoto capovolgesse il mondo, addestrate ad ogni tecnica di assalto e assetate di vendetta. Si chiamavano Inong Balee, l’esercito delle vedove, combattevano per l’indipendenza di Aceh, la porta dell’Islam, che lotta per staccarsi da Giakarta, alla macchia per vendicare un decennio di massacri, stupri e torture compiuti dall’esercito di Suharto. Esperante ha una bambina in braccio, Agata, sua figlia, e gli incubi la notte. Da quando lui non c’è più sogna ancora bande di miliziani che fanno irruzione in casa sua, come quella notte, la notte del machete che le portò via il marito. Un milione di morti ha lasciato il Ruanda in mano alle donne che sono il 60 per cento della popolazione e il 25 per cento dei seggi parlamentari. Sono le più istruite di tutta l’Africa, hanno perso l’amore, la casa, i figli, ma non la voglia di un futuro migliore.
Le vedove della Storia non hanno mai una storia qualunque. In Afghanistan dopo una decina di anni nascoste dietro un burqa le prime donne a scendere in piazza, anni fa, come femministe qualsiasi sono state proprio le vedove, undicimila, per chiedere la liberazione di Clementina Cantoni. «Il minimo che potevamo fare per ricambiare tutto il bene che ci ha fatto» ha detto Karina, due figli, inserita come le altre in un progetto di microcredito finanziato da Care per avviare piccoli esercizi commerciali. Molte vedove dei 347 pompieri del Fire Department di New York che si immolarono al World Trade Center si sono risposate o fidanzate con colleghi del marito. Quelli per esempio che il Dipartimento aveva assegnato loro per aiutarle, confortarle, farle sentire meno sole dopo la tragedia. E alcuni di quei vigili del fuoco hanno lasciato le proprie mogli per mettersi con quelle dei colleghi uccisi, gli uni dicono per espiare così, prendendosi cura delle famiglie di chi non c’è più, il senso di colpa di essersi salvati, le altre per sostituire il papà dei loro figli con un uomo non molto diverso da lui. Perché per quanto buio ci possa essere nell’altra metà del cielo c’è sempre bisogno di un po’ di fuoco.

Anche solo per illuminare il domani.

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