Cultura e Spettacoli

Senza Tatarella la destra resta un miraggio

Pinuccio voleva sposare l'eredità missina con il moderatismo nascente. L'attuale dirigenza di An ha scelto di sacrificare la storia al cesarismo del leader

A dieci anni dalla morte di Pinuccio Tatarella, abbiamo chiesto a Pietrangelo Buttafuoco di ricordarne la figura e il progetto politico.

Caro direttore,
la destra che nasce con Pinuccio Tatarella è un inedito nell’orizzonte politico italiano. È nutrita dall’esperienza del Movimento Sociale Italiano ma anche forgiata dalle aspirazioni della più vasta area moderata e dalla volontà - da parte di soggetti estranei ai «poteri forti» - di sperimentare nuovi confini oltre le ideologie. Primi tra tutti, infatti, con Francesco Cossiga sul piano «eversivo» e con il «dottrinario» Domenico Fisichella, interlocutori privilegiati in questa strategia furono i socialisti di Bettino Craxi. E finalmente - rompendo lo schema della guerra civile - «avversari» e non più «nemici», quindi rivali speculari nel processo riformista furono gli uomini stretti intorno all’altro grande leader inedito: Massimo D’Alema.

La destra che oggi è al governo non assomiglia a quella che poi brucerà la propria promessa con la scomparsa di Tatarella. Sarà lo stesso D’Alema a rammaricarsene («Con Pinuccio non sarebbe successo», disse) di fronte all’imbarbarimento del confronto dove gli schieramenti non hanno altro progetto che la delegittimazione reciproca. E la destra, specificatamente quella di Alleanza nazionale, ha smesso di perseguire il tracciato tatarelliano per aver mancato i due fondamentali appuntamenti: quello con il dibattito culturale e quello del traghettamento di una comunità - il vasto elettorato erede del Msi - nell’alveo del sentimento nazionale ormai pacificato.
È con la demonizzazione di quest’ultimo, infatti, buttando in pasto alla maledizione quella stessa Fiamma con cui ha pur costruito il suo orto che il leader di An s’è potuto costruire la sua personale ratifica presso lo status quo. Al prezzo di confinare perfino la storia di Giorgio Almirante tra le immondizie del razzismo, assecondando una lettura della storia missina verso le derive del Male assoluto, con la conseguente umiliazione di almeno un mezzo milione di italiani per bene, Fini ha contrabbandato un patrimonio spirituale per il proprio personale successo.

Il tema è, ovviamente, quello dell’antifascismo e le conseguenti applicazioni strumentali di questa religione civile e Pinuccio Tatarella che pure fu radicalmente estraneo e culturalmente lontano dal fascismo mai ebbe a pronunciare anatemi, giusto per non facilitare la rimonta d’odio che ha inesorabilmente avvelenato la cittadella politica e sociale e per non criminalizzare una sensibilità di popolo, quella certa idea della comunità nazionale - maggioritaria e non invasiva - che passa indifferentemente da padre Pio a Totò, a Benito Mussolini senza soffermarsi su Galante Garrone o sui desiderata dell’ambasciata americana. E meno che mai Tatarella avrebbe ceduto al teorema del leader in solitario splendore (sintomo di un cesarismo che certo abita anche ad Arcore, magari con qualche fruttuoso motivo), ma - per carità - basta, già ci è d’avanzo l’altro mancato appuntamento: il confronto culturale.

Tatarella aveva instancabilmente sollecitato, fondato e sostenuto un’infinità di giornali, periodici e riviste. Non c’era cena, nelle sere di una Roma frenetica (quella della nascente Seconda Repubblica), dove Tatarella non coinvolgesse pensanti, professori, giornalisti e professionisti estranei alla cerchia dei questuanti. Aveva un’idea così radicata nel lavoro culturale che riteneva importante ai fini della politica solo la capacità di rinnovare il linguaggio con una precisa strategia di aggregazione. Un veicolare le idee, quello promosso da Tatarella, che si specchiava fin negli ingranaggi del partito: nelle assemblee, nelle riunioni di direzione, nei comitati centrali che vivevano nel confronto, innanzitutto, culturale. L’aggregazione di Tatarella, infatti, aveva un’immediata declinazione politica: la convinzione che l’area moderata fosse maggioranza in Italia lo portava ad ascoltare e dialogare con Antonio Di Pietro, con Roberto Maroni e perfino con lo smoderato Carmelo Bene. Non ci fu angolo d’eresia, di fatto, che non venisse perlustrato da Tatarella con quella sua generosa curiosità che lo distingueva da quanti nella politica avevano fatto rifugio di una modesta carriera. Nel momento di acuta polemica - anche personale - che vedeva contrapposte la destra retrograda dei finiani e la destra d’avanguardia insofferente al nostalgismo, fu Tatarella a recuperare il rapporto con quest’ultimi, dialogando con Umberto Croppi, con Peppe Nanni e con tutta l’area intellettuale della Nuova Destra sempre più affine alla sinistra dei Massimo Cacciari e delle Università. E fu Tatarella l’unico a capire che con la morte di Beppe Niccolai, il padre nobile di un mondo votato all’eresia, veniva meno il riferimento di grandezza di un partito troppo spesso destinato all’amministrazione dell’assai comoda gestione della propria emarginazione: minimi interessi elettorali. Tatarella che era un capolavoro di meridiana volontà politica, in quel funerale di Niccolai vide venire meno la possibilità per la destra di ritornare alla propria culla, la tana dei sentimenti e delle parole fatte idee e progetti per la nazione più amata dagli italiani più particolari: gli italiani di destra. Fu lì che lui pensò: «Senza Niccolai non sarà più possibile». Quel funerale fu per Pinuccio un continuo rewind. Si schermiva sempre quando nel fuoco della polemica più rovente lo stesso Niccolai, tuonando gli diceva: «Solo con te, Pinuccio, questa destra che hai in testa potrebbe essere possibile».

Solo con lui, infatti.

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