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Sette Comuni, un regno creato da "Matria" natura

Nell'Altopiano si venerava il dio Odino. Oggi fra macigni levigati dal tempo e boschi percorriamo il sentiero della Storia

Sette Comuni, un regno creato da "Matria" natura

Matria come terra madre e patria come terra dei padri: questo è il luogo dove vivo, l'Altopiano dei Sette Comuni, che i miei antenati scendendo dal Nord scelsero mille anni or sono. Era una terra povera e selvaggia, ossia coperta da selve e abitata da selvaggina, difficile da raggiungere e anche da viverci; ma anche facile da difendere. Una terra che nessuno voleva perché povera, ma appunto per questo bella da viverci in libertà.

...Risalendo la valle stretta e paurosa che dalla pianura veneta penetra verso questi luoghi rifiutati dalla civiltà, dopo una giornata di coraggioso cammino incontrarono sulle rocce i segni misteriosi fatti tanti millenni prima da altri uomini che erano venuti da lontane contrade euroasiatiche. Dove le rocce della stretta vallata si allargano e i fianchi diventano ripidi pendii ricoperti da cupi boschi, gli esploratori più arditi li risalirono e dall'uno e dall'altro versante videro ampie radure tra dolci dossi ricoperti di querce e aceri, e piccole sorgenti, e tutt'intorno altri monti a difesa naturale.

Si fermarono qui e vissero liberi, autogovernandosi secondo le leggi non scritte delle loro tradizioni. Quando, dopo il XII secolo, arrivarono i predicatori di una nuova religione, vicino alla collina dove avevano eretto l'ara a Odino costruirono una casa in legname per il Dio dei cristiani. Ma mai, nei secoli che vennero dopo, si costruirono castelli di nobili, cattedrali di vescovi, ville di signori perché la terra era del Popolo e non c'erano padroni...

(Scrivo queste note e sento i campani delle vitelle che pascolano sotto casa, il volo delle mie api che vanno sui prati a raccogliere il miele, il canto delle allodole alte nel cielo e un luì sul ciliegio: dalla finestra aperta vedo lontano il massiccio del Pasubio e al di là delle montagne che mi chiudono lo sguardo verso la pianura, immagino la città dove vive tanta gente come una sera le vidi dall'alto di una montagna: luci fitte che non lasciano vedere le stelle, vortici di automobili come serpenti fosforescenti e un brusio sordo e continuo che invade il cielo).

Ora per la via nascosta della tetra valle non passa più nessuno; sulle strade asfaltate corrono veloci le macchine che non lasciano segni e i carpini, gli ontani, le roverelle, i faggi, i tassi, i sorbi, i salici si arrampicano da scaffa in scaffa per nascondere e proteggere il mistero dei segni antichi. Le volpi, i gufi, le serpi riabitano la forra che i caprioli rifiutano, e di notte la sacra civetta fa compagnia agli spiriti che vengono da lontano per risalire verso i monti delle origini: su, lungo l'Ass, dove nelle profumate notti d'estate gli usignoli versano il loro canto alle «Beate Fanciulle» che escono dalle grotte per ascoltarli.

Sul monte, dopo i neri boschi d'abete, si apre nel cielo una chiara radura coperta da ginestre e dove affiorano le ossa della Terra: macigni grigi levigati dal Tempo. Sotto precipita una valle con paesi sparsi lungo il fiume e, lontano, la pianura fino al mare.

La mia gente saliva fin quassù portando la vittima per il sacrificio; il popolo restava in silenzio tra le ginestre e le pietre mentre i sacerdoti per un cunicolo si accostavano all'Antico Sasso in bilico sul baratro e che abili intagliatori avevano reso a forma e volume secondo il volere dei sacerdoti. Oggi ragazzi e ragazze in jeans e con l'ultima canzone sul nastro arrivano con le motociclette fino ai pressi della radura, ma poi quando per il cunicolo si avvicinano all'Antico Sasso sull'abisso, ammutoliscono e intimoriti ascoltano il vento.

Da tempo immemorabile i nostri pastori andavano a svernare le greggi lungo i fiumi fino alla Laguna Adriatica, e qui dalle foci del Mincio a quelle dell'Isonzo facevano pascolare secondo consuetudini di un remoto diritto che più di ogni legge aveva forza. Ed erano centinaia di migliaia le pecore che ogni anno, nelle stagioni regolate dalla luna e dal passo e ripasso degli uccelli, scendevano e risalivano le montagne dell'Altopiano.

Ora ne sono rimaste tremila e per attraversare le strade dove veloci corrono i Tir la polizia stradale deve proteggere e sorvegliare il loro lento passo. La Grande guerra era passata e ripassata per quasi quattro anni. I sassi erano riaffiorati sui prati come le ossa dei soldati che le intemperie avevano dilavato; la terra era stata bruciata dai gas e tra le macerie delle case erano rimasti solo i ricordi.

Un vecchio cacciatore nella primavera del 1919 risalì il bosco dove un tempo andava a cacciare gli urogalli; ma il bosco era secco in piedi e non germogliava più al canto del cuculo. Trovò un cannone abbandonato e, poco lontano, il deposito delle munizioni. Allora prese tanta polvere da riempire la bocca da fuoco, la tappò con la cera, accese un pezzo di miccia e se ne andò via. Un grande boato dilaniò il cielo. Lui aveva sperato che fosse l'ultimo, ma ancora oggi continua a girare attorno alla terra. Su questa strada militare dove fu distrutto il cannone passano ora le moto da cross che lanciano pietre contro gli alberi ricresciuti e fanno fuggire i caprioli.

Ma di questa mia terra antica cosa è rimasto? Solo la linea dell'orizzonte e i ricordi? Dove c'era il fabbro così bravo a temperarti le scuri e gli scalpelli ora c'è una boutique, e dove il contadino al sabato legava il cavallo con la slitta ora a Natale parcheggia una Rolls-Royce.

Malgrado tutto questo sia accaduto e accada l'Altopiano rimane pur sempre la mia terra, matria e patria: qui posso raccogliere storie da raccontare per fare compagnia alla gente; leggere i segni dei boscaioli, dei carbonai, dei cacciatori; segni che il tempo ha nascosto, ma non cancellato; ascoltare e seguire le voci della natura; lavorare, amare. Andare in autunno a cercare una beccaccia e all'inverno con i miei sci leggeri per i boschi silenziosi, salire d'estate in una malga a scegliere formaggio e nelle mattine di primavera camminare sull'harnust, neve soleggiata indurita dal gelo notturno, come sospeso tra alberi e suolo. E quando il vento morde il tetto e il mulino del cielo non si stanca a macinare neve, ricordare e raccontare.

«Qui Touring», febbraio 1984

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