Sfida dell'internazionalizzazione per le aziende del Made in Italy

Le Pmi devono passare da logiche artigianali ad approcci imprenditoriali Parla Marchese, presidente di Iang (International Advising Network Group)

Riccardo CervelliSi fa in fretta a dire Made in Italy, come se fosse una bacchetta magica per il successo di business. In un mercato globalizzato, con economie emergenti che, da un lato aumentano le importazioni, ma dall'altro incrementano anche la capacità produttiva, l'aspetto dell'internazionalità delle aziende tricolori ha bisogno di essere costantemente rafforzato. «Per chi già esporta da sempre una quota rilevante della propria produzione sostiene Peppino Marchese, presidente di Iang, International Advising Network Group, società di consulenza aderente al sistema confindustriale attraverso Assoconsult le sfide sono quelle di aumentare la capacità di ampliare i mercati in cui si è presenti, intercettare nuove esigenze di prodotti e servizi, e introdursi in modo efficace in canali distributivi diversi da quelli già conosciuti, o innovativi come il commercio elettronico. Per le aziende che invece puntavano soprattutto sul mercato italiano, o che lavoravano come terzisti per società che da un anno all'altro hanno spostato fuori dai confini le proprie produzioni, le scommesse sono le stesse che ho già citato, cui si aggiunge quella di superare la paura di intraprendere una nuova strada che richiede cambiamenti di mentalità e di competenze».Anche se i più recenti dati macroeconomici parlano di una leggera ripresa della domanda interna, mentre alcuni grandi Paesi emergenti hanno iniziato ad accusare un rallentamento della crescita economica e di conseguenza hanno temporaneamente diminuito le importazioni, il consensus degli economisti è che le aziende manifatturiere italiane devono aumentare la propria posta sul tavolo da gioco del mercato mondiale. L'obiettivo è continuare a mirare ai cosiddetti Bric, ma allo stesso tempo essere più pronte e flessibili per cogliere le opportunità che si presentano in altre nazioni, meno grandi ma sane. «Il problema di molte realtà italiane di dimensioni medio-piccole afferma Marchese - è che sono in grado di sviluppare e produrre prodotti innovativi e di eccelsa qualità, ma faticano a superare modelli organizzativi e di business poco più che artigianali, per adottarne di nuovi più di livello imprenditoriale». Questo gap significa, a esempio, una maggiore difficoltà ad affrontare problemi come cercare nuovi partner e clienti con cui occorre interloquire in inglese o nelle loro madri lingue; comprendere e cavalcare i nuovi modelli di business digitali; riuscire a districarsi fra problematiche doganali e fiscali; individuare i migliori modi di comunicare i vantaggi della propria offerta e l'unicità del proprio brand in Paesi con culture molto diverse dalle nostre. Come può aiutare queste Pmi una società come Iang? «Negli anni risponde Marchese abbiamo sviluppato modelli di servizio che permettono alle aziende di minori dimensioni di dotarsi di capacità che finora erano appannaggio solo di imprese più grandi. Dopo aver analizzato a fondo le produzioni e le esigenze delle singole Pmi, ed elaborato insieme alla proprietà un piano strategico di internazionalizzazione, possiamo sia formare personale interno o aiutare a trovare nuove risorse dall'esterno, sia a offrire figure professionali in outsourcing». È quello che si definisce temporary management, e che oggi Iang ha deciso di offrire anche con una modalità innovativa: il success fee.

Una parte dei compensi sono, infatti, legati al raggiungimento di specifici obiettivi di vendita e di immagine.

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