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IL SOGNO DI UN 25 APRILE DIVERSO

«Quando vedi la tua verità fiorire sulle labbra del nemico, devi gioire, perché questo è il segno della vittoria». La frase è di Giorgio Almirante, che probabilmente la dedicò ai suoi eredi, immaginando che un giorno avrebbero visto le proprie (e ovviamente anche le sue, di Almirante) verità fiorire sulle labbra del nemico.
Ma ieri, per gli a volte imprevedibili intrecci della storia, sono stati i «nemici» di un tempo a veder fiorire le proprie verità sulle labbra di un ex segretario del Msi. Gianfranco Fini, in un convegno dedicato alla memoria di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (trucidato alle Fosse Ardeatine) ha infatti dedicato alla Resistenza parole un tempo inimmaginabili. «A questi uomini che vollero vivere da cittadini liberi in un Paese libero deve andare sempre la gratitudine degli italiani», ha detto. E ancora: «Il valore che emerge è quello del patriottismo democratico, che il fascismo aveva oscurato per vent’anni, e che trovò uno dei suoi primi momenti di rinascita nella scelta di continuare la guerra contro i tedeschi. Il Fronte militare clandestino rappresenta una delle pagine più eroiche di quella storia». Fini ha anche citato una delle figure di maggior spicco dell’antifascismo, Pietro Calamandrei: «Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini; di morire da uomini per vivere da uomini».
Per le sue molte svolte, Fini è stato spesso sospettato e quindi anche accusato di opportunismo. Ma è difficile credere che le sue parole di ieri non siano sincere, che non siano il segno di una convinzione maturata con gli anni, insieme con una piena adesione ai valori della democrazia e della Costituzione. Valori che, negli ultimi anni della sua vita, anche Giorgio Almirante aveva detto di aver ormai interamente fatti propri. La storia della Destra italiana è innegabilmente quella di una magari lenta, ma alla fine sicura uscita dal fascismo. Già nel 1946, al momento della fondazione, nel motto del Msi accanto al «non rinnegare» c’era un «non restaurare». Poi «l’estrema destra» - come fu orgogliosamente definito il Msi dallo stesso Almirante nel 1970, quando tornò alla segreteria del partito - si unì ai monarchici e diventò «Destra nazionale». Poi ci fu Fiuggi, con lo scioglimento del Msi. Poi altri passi, fino allo scorso weekend, con la fine anche di Alleanza nazionale e la scomparsa della Fiamma. Si può ancora dubitare del definitivo smarcamento della Destra italiana dal fascismo? Non diremmo, visto che ieri anche Guglielmo Epifani ha applaudito Fini: «Il suo è un discorso di alto profilo. Fini è un personaggio di levatura alta».
Per tutti questi motivi ci chiediamo se ci è permesso di sperare, a un mese esatto di distanza, che il prossimo 25 aprile possa essere finalmente una festa di unità nazionale, poggiata su idee ormai largamente condivise. Se ci è permesso sperare che sia insomma una doverosa memoria, ma non - come è spesso successo negli anni passati - un agitare lo spauracchio di un qualcosa che non c’è più e che non può più tornare.
Lo speriamo, ma ci chiediamo se non abbia ragione La Russa quando consiglia Berlusconi di non partecipare alla celebrazione del prossimo 25 aprile: «Vorrebbe dire sottoporsi», ha detto, «a una gogna mediatica». Troppo vivo il ricordo, ad esempio, degli insulti al sindaco di Milano Letizia Moratti mentre spingeva la carrozzella sulla quale stava suo padre, ex partigiano. E ancor prima, la tentata espulsione di Bossi dal corteo.
È che - morto da sessant’anni quello originale, e ormai da tempo anche quello sopravvissuto con il prefisso «neo» - c’è sempre un nuovo «fascismo» da combattere, magari come pretesto per tenere vivo un certo antifascismo militante che forse teme di non avere più una ragione sociale. Un antifascismo che nel nostro Paese è stato ben diverso da quello elogiato ieri da Fini; un fenomeno di intolleranza, di sospetto sistematico, di scomunica civile tanto nociva per il Paese da farci convincere che i danni procurati da Mussolini all’Italia furono non uno ma due: l’averci dato vent’anni di fascismo e sessanta di antifascismo. Con una delle sue battute fulminanti, Mino Maccari osservò che «i fascisti in Italia si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti».
È lecito sperare che, morto il fascismo, finisca anche la consuetudine di appiccicare il marchio di infamia («fascista») al nemico di turno? E che il 25 aprile non sia più strumentalizzato per la battaglia politica del momento? Sì, dovrebbe essere lecito, ma i segnali sembrano dar ragione a La Russa, se è vero - ad esempio - che solo domenica scorsa Eugenio Scalfari ha scritto che il fascismo e il berlusconismo sono due regimi che hanno molte somiglianze e poche differenze; e se è vero che sul manifesto abbiamo appena letto che in Italia di fascismi ce ne sono ancora almeno due, quello «naturale e qualunquista degli elettori di Berlusconi» e «il fascismo razzista e xenofobo della Lega».
Nessuno nega il diritto, all’opposizione, di fare l’opposizione; e di scendere in piazza contro Berlusconi, contro la Lega e contro un sindaco di centrodestra come la Moratti.

Ma perché farlo il 25 aprile? Ormai l’Italia che ha dato vita a quella festa ha visto la sua verità fiorire sulle labbra del nemico.

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