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Il sogno-realtà di Farnese, la «cooperativa privata» che porta il Sud nel mondo

Il gruppo abruzzese non ha neanche un vigneto ma esporta il 96,6% della produzione in 81 Paesi

Andrea Cuomo

C'è una azienda vinicola italiana che fa ogni anno 17 milioni di bottiglie davvero interessanti, ha un modello produttivo unico, riceve premi e riconoscimenti continui. Eppure se cercherete una sua bottiglia nell'enoteca più vicina difficilmente la troverete. Perché esporta quasi tutta la produzione: esattamente il 96,6 per cento, in 81 Paesi.

L'azienda è Farnese. È abruzzese ma - come vedremo - è un po' l'ambasciatrice in tutto il mondo dell'enologia dell'Italia meridionale. Fondata a metà degli anni Novanta a Ortona da Valentino Sciotti - oggi presidente del gruppo - e da altri due soci nel frattempo diventati uno, ha conosciuto una crescita tale da esibire oggi numeri pazzeschi. Il fatturato del 2017 è stato di 68,2 milioni (che la colloca ampiamente della Top 155 delle aziende vinicole italiane stilata ogni anno da Mediobanca), con un aumento del 26,3 per cento. Il numero di bottiglie 22,2 milioni (nel 2016 erano 17,4), delle quali come visto il 96,6 per cento esportate, record per un'azienda vitivinicola italiana, e un'attenzione a mercati emergenti come quello asiatico e perfino quello africano. Ma non è solo la quantità a stupire. Nel 2018 Farnese è stata nominata Cantina dell'anno dalla guida di Luca Maroni, il vino Cinque Autoctoni è stato premiato come Vino dell'anno da Bibenda, premi sono arrivati dalla Germania (nella competizione enologica Mundus Vini) e in Belgio (nella guida del quotidiano Het Nieuwsblad).

Il segreto di cotanto successo sta in un modello produttivo unico, una via di mezzo tra l'azienda privata e la cooperativa. Chiamiamola cooperativa privata. Fin dall'inizio Farnese non possiede vigneti propri ma acquista le uve da alcune aziende selezionate e appassionate in regione, a cui la materia prima viene pagata in base all'estensione del vigneto e non in base alla quantità di uva, ciò che avrebbe rischiato di abbassare la qualità media. Inoltre è stato creato un pool di enologi low cost, puntando su giovani talentuosi e su tecnici dell'altro emisfero, che venivano in Italia a conoscere il nostro mondo del vino riempiendo il «buco» della stagione morta degli antipodi. Dopo un momento di scetticismo da parte di tutti gli addetti ai lavori l'idea si è rivelata vincente già da subito, permettendo di creare vini di alta qualità anche se fuori dai disciplinari Doc e Docg, di venderli facilmente, di remunerare i viticoltori in modo giusto e di reinvestire i guadagni.

Il secondo passo della rivoluzione Farnese è stato riprodurre il modello abruzzese in altre regioni meridionali, e agli inizi del Duemila Sciotti e compagni hanno trovato altri partner in Campania (Vesevo), Basilicata (Vigneti del Vulture), Puglia (Vigneti del Salento) e Sicilia (Vigneti Zabù e Cantine Cellaro). In questo modo la carta dei vini Farnese si è arricchita ed è nato anche il vino simbolo aziendale, che rappresenta la summa del progetto: il Cinque Autoctoni, (nell'«edizione» 2017 composto da Montepulciano al 33 per cento, Primitivo al 30, Sangiovese al 25, Negroamaro al 7 e Malvasia Nera al 5), impreziosito peraltro da una bottiglia spessa e quasi monumentale. Nel frattempo ci sono stati cambiamenti anche dal punto di vista dell'assetto societario, con l'ingresso in Farnese dapprima del Fondo 21 investimenti di Alessandro Benetton e poi del fondo Renaissance del colosso Usa Neuberger Berman. Soci importanti, che hanno reso più larghe le spalle dell'azienda ma non ne hanno snaturato le idee e la conduzione «abruzzese» e meridionale. E un nuovo progetto è alle viste: l'acquisto di una quota dell'azienda Tenute Rossetti, a Cerreto Guidi. Confrontarsi con i grandi tra i grandi, i toscani, è una sfida da far tremare i vigneti.

Ma non Farnese.

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