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"Sono un pittore che ama l'arte del vino"

È conteso dai musei di tutto il mondo e l'America è la sua seconda patria: "È unica perché là tutto è possibile ma la mia Firenze è la Storia"

"Sono un pittore che ama l'arte del vino"

È estraneo ai protagonismi dell'artista, Sandro Chia. Dell'artista - semmai - ha l'occhio curioso, prensile, fanciullino. Si irrigidisce quando lo si presenta per quello che è: uno dei pittori e scultori di punta della scena internazionale. È nato (nel 1946) e si è formato a Firenze, vive fra Montalcino e Miami. Al suo fianco, la moglie Marella Caracciolo, omonima della zia, la vedova di Gianni Agnelli. Chia si fece conoscere con lavori legati all'arte concettuale, per poi diventare uno dei protagonisti della Transavanguardia. Correvano gli anni Ottanta: tutti spesi a New York, dove l'artista sta per tornare su invito del gallerista Marc Straus. I più grandi musei del mondo gli hanno dedicato personali, dallo Stedelijk di Amsterdam al Metropolitan Museum di New York, Nationalgalerie di Berlino, il Museo d'Arte Moderna di Parigi, i Musei di Dusseldorf, Anversa, Città del Messico. Artista, ma anche vignaiolo. Nel 1984, a Montalcino, Chia acquistò dal barone Giorgio Franchetti una fortezza abbandonata, dalle terre incolte trasse vigneti ricavando uno dei Brunelli più premiati dell'area. È Castello Romitorio, in bottiglie contrassegnate - ovviamente - da etichette d'autore.

Com'è Montalcino vista con gli occhi del pittore?

«Ci sono tanti Montalcini. È un territorio che cambia volto a seconda dei momenti e delle stagioni. C'è Montalcino con la pioggia, con la luna piena come ieri sera, nella fase della raccolta. Sono tante le variabili. Proprio quelle che rendono il nostro vino irripetibile. Un po' come con gli scacchi: la scacchiera è sempre quella, ma le combinazioni della partita mutano di continuo. Domina la volubilità: vedi in fondo la pioggia, t'aspetti che arrivi anche qui, e invece si ferma».

Una complessità che Miami non ha.

«Lì ci sono variazioni di temperatura, ma le stagioni sono tutte uguali. La civiltà, del resto, non è nata in quei posti, ma qui. Qui è stato costruito il Partenone, il Colosseo, la Domus Aurea. Sono luoghi dove la civiltà è stata poi esportata, e con buoni risultati».

Lei ha doppio passaporto, corretto?

«Italiano e americano. Anche tre dei miei quattro figli sono nati in America. Ogni imprenditore dovrebbe vivere qualche anno lì per capire cosa è l'imprenditoria. Via la burocrazia, i tempi sono veloci, domina l'etica del lavoro. E poi hanno una bella Costituzione».

Eppure è opinione diffusa che quella italiana sia un modello.

«La nostra Costituzione non è stata dettata dalla necessità, e poi si è dovuto tener conto di tante ideologie».

Cosa intende per necessità?

«I Padri costituenti americani non volevano che i propri figli e nipoti conoscessero le persecuzioni e i mali con cui si erano misurati. Desideravano che certi errori non si ripetessero nel Nuovo Mondo. La Costituzione rispecchia queste necessità e stabilisce subito il diritto alla felicità, cosa che mi lascia meravigliato. Sancisce che il cittadino, tramite il voto, decida e scelga i rappresentanti di tutti e tre i poteri su cui si fonda lo Stato democratico: legislativo, esecutivo, giudiziario. In Italia invece si vota per i partiti e sono loro a decidere, con le conseguenze e le contraddizioni che conosciamo».

Quindi meglio la Carta americana?

«Mi piace l'idea che in quel Paese, fin dalla nascita, un individuo abbia la possibilità di migliorare la propria vita. Pensiamo ai presidenti. Il padre di Clinton era alcolizzato, la famiglia di Obama non era certo ricca, eppure sono diventati le guide del Paese, ce l'hanno fatta. Là un povero è quasi accusato, qui si dice beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Devo però dire una cosa: ovunque vada, non mi imbatto mai in un barbone italiano. L'italiano è sempre brillante, piace alla gente».

E spesso è anche un pioniere, come lo è stato lei con i vini.

«Già si parlava di Super Tuscan, però in quell'epoca il Brunello era vissuto come una sorta di stravaganza per pochissimi intenditori. Nel frattempo nascevano le prime riviste di vino, e anche le testate non specializzate iniziavano a occuparsi di vino accrescendo gli interessi».

La critica enologica oggi incide fortemente sul successo o fallimento commerciale di un vino. Cosa che non si può dire della critica d'arte...

«La critica d'arte è assolutamente più scadente, possiamo giusto ricordare lo storico e scienziato d'arte Roberto Longhi. Oggi è una critica relegata a riviste specializzate che francamente non compro, mentre mi piace la prosa di chi scrive di vino. La letteratura che se ne occupa si sforza di realizzare l'irrealizzabile, perché è difficile tradurre un qualcosa di non oggettivabile come il vino. Sono critiche talmente influenti che un marchio che inizia da zero ha davanti a sé una missione quasi impossibile».

Cosa hanno in comune l'arte pittorica e l'arte del fare il vino?

«La pittura è solitaria, mentre il vino chiede collaborazione: ogni componente della squadra ha un suo compito. Il produttore ha una sua idea di vino, che l'enologo, sorta di mago, deve saper interpretare, deve saper tradurre un desiderio incomunicabile, perché non ci sono parole sufficienti per descrivere un effetto, un sapore, un mondo. L'enologo lavora per approssimazioni».

È stata coraggiosa la scelta di fare imprenditoria in Italia. Poteva essere vignaiolo a Napa Valley.

«E mi creda, talvolta non capisco certi cavilli, tutte quelle carte. Viaggi in aereo per incontrare un cliente e hai difficoltà a scaricare le spese perché ti dicono che non era necessario viaggiare in prima classe. Negli Usa le dichiarazioni dei redditi sono concentrate in una sola e razionale pagina».

Tanto per il vino quanto per l'artista conta la provenienza. Lei è nato a Firenze, un'eredità non da poco...

«Quello che è accaduto lì in 150 anni non si è verificato in nessun'altra città. C'è stata una fase storica in cui tutte le menti erano a Firenze, da Masaccio a Galilei. Quando si dice Firenze la mente va a una complessità dalla quale forse è meglio stare alla larga».

Però si parla usando i tempi al passato...

«La storia si è esaurita. Ma questo vale per il mondo. Siamo ai tempi supplementari. Non c'è nulla, oggi, su cui fondare un'evoluzione di tipo darwinista. È possibile tutto e il contrario di tutto».

Come si traduce tutto questo nell'arte?

«Un tempo l'arte si rifaceva a un sistema, aveva linguaggi e tecniche chiari, e si presupponeva che la gente li capisse, tradizioni che oggi hanno conosciuto uno stravolgimento. Si chiama pittura anche quello che non è: il Grande Vetro di Duchamp, per esempio. L'arte ha spostato i propri limiti».

E voi artisti come vi sentite?

«L'artista è abbandonato a se stesso, non ha più riferimenti, non ci sono più accademie, scuole d'arte, tecniche... Ormai tutti i mondi sono arrivati a un punto di rottura, alla catastrofe, discorso che coinvolge le religioni, la morale, l'informazione, le nazioni, le lingue».

Dal 2017 sarà presente con una personale in una delle gallerie cult di New York. Ha lasciato questa città agli inizi del Duemila. Che ricordo ha?

«Negli anni Ottanta, New York era più artigianale. Sembrava una città del Terzo mondo, con intere zone che parevano bombardate, il costo della vita era minimo. C'era tanta curiosità, era piena di gallerie, persino il fattorino che ti portava la spesa amava intrattenersi e parlare di pittura. Io avevo affittato un loft a Chelsea. Lì i costi erano ridicoli se comparati a Roma, persino i tassisti facevano resistenza per riportati in quel quartiere perché era considerato malfamato. Credo che sia stato l'unico caso immobiliare di palazzi in riva al fiume più economici di quelli nel centro città».

Continua a piacerle New York da un punto vista architettonico?

«Sì, perché tutto è nel posto giusto. L'architettura ha uno stile e uno standard che tornano sempre, gli elementi sono fonemi di un linguaggio che pervade tutto, dal cestino dell'immondizia al marciapiede. Quasi non c'è arbitrarietà».

Perché lei non ama l'arbitrarietà architettonica...

«Oggi c'è questa tendenza a costruire strutture curvilinee, fuori squadra, muri a 45 gradi che creano solo ansia e sono ingombranti. Credo che un'opera d'arte debba essere invisibile, dotata di una discrezione totale.

Il quadro, benché ricco di colore, grazie a un'armonia algebrica riesce a seguire questa discrezione».

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