Cultura e Spettacoli

Come sopravvivere a cinque ore di cinema d’essai

«Ex Libris» è girato tutto in biblioteca mentre «Caniba» ha una sola, interminabile inquadratura

Dal film "Caniba"
Dal film "Caniba"

Dal nostro inviato

Ai festival capitano giornate interminabili. Bisogna seguire tutto perché, per il pubblico, l’unico film che mancherai di vedere sarà quello di cui ti chiederanno gli amici, e per i giornalisti, l’unico evento che salti sarà quello di cui parleranno domani tutti gli altri. E così per non rischiare di ritrovarti in mano poco, segui di tutto. E alla fine porti a casa niente. E niente è peggiore dell’imprudenza di infilarsi, a una Mostra del cinema, in una di quelle sezioni parallele, delizia dei cinefili e croce dei curiosi, dedicate ai “grandi maestri”, alla sperimentazione, ai docu-film di tendenza. Opere “estreme”. Di solito inguardabili. Di per sé non è sbagliato portare certi film ai festival. L’errore è andare a vederli. Ieri il vostro cronista ha fatto l’errore di andare a vedere due film che per un giorno hanno notevolmente indebolito il suo amore altrimenti incondizionato per il cinema, ma lo hanno enormemente arricchito nell’arte di sopravvivere a (certi) film da festival. Regola numero uno: i silenzi non sempre sono così intelligenti.

Regola numero due: la non-azione alla lunga stanca. Da cui: tra Manoel de Oliveira e Fast and Furiousricordati di sederti nella fila di mezzo. E così, inavvertitamente, al sesto giorno di turismo cinematografico al Lido ci siamo ritrovati seduti davanti a due pellicole letali. Il documentario Ex libris (nel quale peraltro avevamo riposto tutte le nostre aspettative di bibliofili prestati al cinema) di Frederick Wiseman, tra i massimi documentaristi del mondo, già premio Oscar e Leone d'oro alla carriera. E il docufilm Caniba (che ci aveva ingolosito per la voce di essere tra le opere più disturbanti in arrivo a Venezia) di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor. Duecento minuti il primo, novanta il secondo. Totale: una maratona d’essai che non raccomanderemmo nemmeno al peggior cultore di Fuori orario.

Cinque ore e mezza, due bottigliette d’acqua, una pausa toilette e un dolore lacinante al plesso cervicale no stop. Start, si parte. Testimonianza travolgente della fiducia nel desiderio di conoscenza della razza umana (e anche nelle capacità di resistenza dello spettatore), Ex Libris è un documentario girato dentro, come da sottotitolo, «The New York Public Library», ossia «il luogo di accoglienza, scambio culturale e apprendimento» per 18 milioni di utenti, e ci è sembrato, alla fine, di conoscerli tutti.

Sia chiaro: l’intenzione di Wiseman, un vero Maestro, è altissima: mostrare come la biblioteca oggi non sia più solo un luogo in cui si consultano libri, ma anche spazio per ricerca, archivio, corsi di formazione... Però il risultato sono tre ore e venti (su 150 di girato...) di cui: quasi una intera di consigli di amministrazione e riunioni sull’aggiornamento tecnologico; un’ora di corsi di computer, di scrittura Braille, doposcuola per bambini, round-table sul realismo magico di Márquez (però c’è anche Elvis Costello, che per dieci minuti ti tira su dalla poltrona), e un’ora divisa tra mostre come Visioni alchemiche dell’immaginario nero nella succursale del Bronx, conferenze sul rapporto tra poesia e politica, performance teatrali... Il resto sono telefonate al centralino per chiedere se sono disponibili libri sulle armature medievali e chiarimenti sui criteri di catalogazione... Tra tutti i colleghi giornalisti che conosco, non ce n’è uno rimasto fino alla fine. E la conferenza stampa, ad ascoltare Wiseman e le sue intemerate anti-Trump («La biblioteca rappresenta tutto ciò che Trump disprezza», «Trump è l’opposto della cultura: è crudele, narcisista, incompetente...»), era semi deserta. Del resto, lo ha detto lo stesso regista: «L’unica audience che mi interessa quando faccio un film, sono io» (Nota personale: che la cultura sia pesantissima, a volte non è un luogo comune, ndr). Non c’è tempo. Via a vedere Caniba. La storia (quella del giapponese Issei Sagawa che nel 1981 uccise e mangiò a pezzi la sua amica olandese, a Parigi, poi estradato, tornato libero perché giudicato incapace di intendere e di volere, e diventato macabra celebrità mediatica in patria) è liquidata in due schermate di testo, in 30 secondi. Seguono 89 minuti di close-up fuori fuoco sulla faccia del cannibale (oggi malato e accudito dal fratello, anche lui affetto da tendenze masochiste e autolesioniste) il quale, di tanto in tanto, in genere ogni 10-12 minuti, biascica frasi in giapponese con sottotioli in inglese, tipo: «Ho fatto una cosa orribile...», «Volevo mangiarla incominciando dal culo...», «C’è ancora un po’ del cioccolato di ieri?».

La sala, 150 posti, si è svuotata in fretta.

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