Quel sottile confine tra design e arte

C'è chi crede (come Sgarbi) che siano solo oggetti d'uso Eppure si trovano anche nei musei, come le labbra di Dalì

di Fabrizio de Feo

Molto più che semplici mobili. Concetti, prototipi e studi su forme e materiali, esperimenti di ricerca e innovazione ma anche esercizi di stile e «performance» di designer affermati ed emergenti. Da sempre il Salone del Mobile è il luogo d'elezione in cui riflettere sullo stato della creatività italiana e internazionale applicata ai luoghi del vivere quotidiano. Uno spazio in cui si fondono tradizione e sperimentazione, attività artigiana e produzione industriale e nel quale, lasciando cadere lo sguardo su un divano, una sedia o una lampada risuona spesso una domanda: può il design essere elevato al rango di arte?

La disputa ha radici antiche e si muove su un filo dialettico sottile accendendo una sorta di duello tra bellezza pura e seduzione commerciale. Sulla carta la distinzione è quella tra un oggetto indifferente alla sua funzione e uno che, al contrario, trova nella sua funzione la propria ragion d'essere. L'oggetto di design rientra nella seconda categoria. Non può essere concepito con lo scopo di diventare un oggetto d'arte: deve innanzitutto corrispondere alla sua mansione e al suo «compito».

Non tutti però la pensano così. Un'altra scuola di pensiero, minoritaria, ritiene che l'oggetto preso di design possa essere considerato un'opera d'arte vera e propria. Una condizione - quella artistica - che mantiene anche se viene prodotto in serie. «Il design è arte che trascende nel funzionale», è l'argomentazione di coloro che sposano questa tesi.

Vittorio Sgarbi di recente, incaricato di scrivere una perizia relativa a una disputa giudiziaria, non ha avuto dubbi: gli oggetti d'uso non possono essere considerati opere d'arte. «Un letto serve a dormire e deve essere fabbricato innanzitutto per soddisfare questa esigenza. Il fatto che marketing e propaganda pubblicitaria possano fare leva sul suo valore estetico non modifica la sostanza delle cose. Altro discorso per il Bed di Robert Rauschenberg, opera d'arte con finalità espressiva». Una convinzione sposata anche da Gillo Dorfles per il quale «l'oggetto di design deve corrispondere alla sua funzione, non soddisfare lo sfizio di essere solamente artistico». In sostanza il designer non inventa qualcosa di nuovo, ma comunica qualcosa che già esiste, allo scopo di motivare il pubblico a fare qualcosa di molto preciso: comprare un prodotto.

Paradossalmente sono spesso i grandi designer a tracciare il confine, a scendere dal piedistallo e smussare con l'ironia il quoziente artistico delle loro creazioni. «Una cosa importante nel design è essere generosi» diceva Vico Magistretti «perché bisogna sapere che la gente può copiare... me lo diceva anche Cesare Cassina, le copie sono il miglior concime per l'originale. Bisogna invece avere la percezione precisa di fare una cosa la cui caratteristica fondamentale è la ragione di esistere del design: una produzione fatta in grandi numeri». Per Ettore Sottsass: «Dipende anche da cosa si intende per arte: se si dice che qualcosa è un'opera d'arte allora anche un'operazione chirurgica può esserlo e anche un barbiere può fare un'opera d'arte». Se non fosse che poi nella realtà il design è approdato pesantemente nei musei e alcune opere-simbolo realizzate da grandi artisti vengono ancora prodotte a livello industriale e semi-industriale come quelle di Salvator Dalì, su tutte il suo divano a forma di labbra di Mae West e la lampada da terra Bracelli. Creazioni disponibili per consumatori alla ricerca di un arredamento se non d'arte, d'autore. Oggetti ad alto tasso creativo, come la Lampada Arco di Achille Castiglioni, capaci di fare la storia del design e segnare a fuoco il nostro immaginario.

Facendo soprattutto la felicità delle loro industrie produttrici.

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