Sotto la Quercia il riformismo è un’ombra

Gli appelli rivolti nei giorni passati anche dalla nostra parte a D’Alema, a Veltroni e a Fassino, affinché, qualora essi fossero animati da autentico spirito riformista battessero un colpo, sono stati insieme una «sfida mite» e anche un atto di generosità politica mai ricambiata: finora - a parte la demonizzazione di Berlusconi - nei confronti del gruppo dirigente di Forza Italia da parte del gruppo dirigente dei Ds sono venuti solo insulti e battute sprezzanti.
Tutto ciò, sia chiaro, ci lascia del tutto indifferenti perché, per dirla con padre Paolo Sarpi quando fu raggiunto dal pugnale della Santa Inquisizione «agnosco stilum Romanae Ecclesiae»; in questo caso conosciamo lo stile della casa comunista e post-comunista. Detto questo, vogliamo tornare sulla «solitudine del riformista»: la presa di posizione di Nicola Rossi e il suo articolo sul Corriere richiederebbero da Fassino delle riflessioni più attente.
Le questioni di fondo che rendono o inesistente o puramente declamatorio il riformismo domenicale dei leader diessini sono essenzialmente tre. La prima è stata già colta da Luca Ridolfi quando ha rilevato che il riformismo diessino e «margheritino» si dà la zappa sui piedi quando parte dal presupposto che con il risultato del 13 aprile si è «salvata l’Italia» dalla catastrofe finanziaria, da un regime autoritario, da provvedimenti che vanno mandati al macero o totalmente rovesciati. Noi non diciamo che tutto quello che ha fatto il governo Berlusconi sia perfetto, però non c’è dubbio che alcuni provvedimenti quali la legge Biagi, la riforma delle pensioni, almeno un pezzo della riforma federalista, almeno un pezzo della riforma scolastica (come si vede, siamo volutamente minimalisti), l’impegno per le infrastrutture, sono stati autentici esempi di riformismo che ci si può porre l’obiettivo di smantellare e distruggere solo in nome di una impostazione di segno opposto, di tipo massimalista quale è predicata e praticata dalla sinistra radicale e dalla Cgil con l’avallo del Presidente Prodi. In secondo luogo c’è una ben diversa forza contrattuale dell’estrema sinistra rispetto alla sinistra riformista e ai centristi della Margherita per una ragione politica di fondo: a Rifondazione Comunista, al Pdci, ai Verdi, al correntone e a quant’altri certamente piace moltissimo stare al governo, ma qualora esso andasse in crisi la loro forza politica ed elettorale non ne subirebbe un danno, anzi ne trarrebbe qualche vantaggio perché la loro base non ha affatto una propensione per il governo, ma per l’opposizione e per il movimentismo.
Al contrario tutta la funzione politica e il sistema di potere dei Ds e della Margherita derivano dalla collocazione al governo: qualora ci fosse una interruzione nella permanenza al governo per i Ds e per la Margherita si verificherebbe una catastrofe politica ed elettorale. Ciò toglie ai riformisti e ai centristi ogni forza contrattuale all’interno di questo centrosinistra così squilibrato a sinistra. Infine il terzo punto è quello politico-culturale. I diesse sono approdati al «riformismo» solo di risulta, non per una autonoma svolta politico-culturale. Non dimentichiamo che essi, con Achille Occhetto, hanno cambiato nome al partito nel 1989 non «prima» ma «dopo» il crollo del muro di Berlino, e che la scelta di Occhetto-D'Alema-Violante fu allora quella di fuoriuscire dal comunismo non da destra (cioè approdando al riformismo e alla democrazia realizzando un'intesa con il Psi di Craxi), ma da sinistra, cioè cavalcando il peggior giustizialismo e il massimalismo della Cgil. In tutti questi anni il superamento del comunismo ideale e reale è stato realizzato non attraverso una profonda e sofferta revisione culturale ed etica, ma con secche operazioni mediatico-politiciste (e anche con una forte componente «militare» nel ’92-’94) e quindi del tutto asfittiche, aride, opportuniste, guidate essenzialmente dall’esigenza di cogliere «l’occasione» per la conquista del potere. Se c’è stata una dimensione culturale in tutta questa operazione essa è stata modellata da un cervello esterno al partito che è stato quello della centrale editoriale-finanziaria-mediatica costituita dal gruppo De Benedetti-Espresso-Repubblica.
Per quel che riguarda Walter Veltroni, poi, egli non appartiene ad alcuna cordata riformista, ma neanche ad una cordata massimalista. Veltroni è tutto e niente, è massimalista, riformista, laico, cattolico, così come sul piano calcistico è juventino, laziale e romanista. Veltroni è Zelig. Veltroni ritiene del tutto controproducente o suicida scegliere una parte, ha capito l’esistenza delle deflagranti contraddizioni del centrosinistra, ritiene anche impossibile superarle con una mediazione ad alto livello e allora ha scelto di non scegliere per essere il «tutto» non essendo niente. Il vuoto è riempito da un permanente «pieno» editoriale-televisivo-cinematografico-calcistico. È lo stesso metodo usato non per amministrare una città, Roma, ma per usarla come gigantesca cassa di risonanza mediatica. Poi la città sta andando in pezzi dal punto di vista del suo assetto urbano (traffico, ambiente, igiene, manutenzione) ma che importa? Tutto viene dimenticato grazie a dieci spettacoli megagalattici. Nel contempo gli editori dei giornali cittadini coprono tutto e applaudono tutto perché i loro interessi reali sono concentrati sulla gestione urbanistica della città.

E così l’apparenza gestita attraverso i media fa scomparire la realtà e anzi è l’apparenza che diventa realtà.
*Vicecoordinatore FI

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