Cultura e Spettacoli

Una vita a creare capolavori per dimenticare il padre

Sabato l'anniversario della nascita del maestro. Biografie e documentari ricordano l'analisi spietata della famiglia

Una vita a creare capolavori per dimenticare il padre

Un ventoso giorno d'inverno all'inizio del 1965 la mamma telefonò a teatro dicendo che papà era stato portato in ospedale e doveva essere operato per un tumore maligno all'esofago. Voleva che lo andassi a trovare. Risposi che non avevo né la voglia né il tempo, che mio padre e io non avevamo niente da dirci, che mi era indifferente». Ingmar Bergman, il regista svedese di cui il 14 luglio si celebra il centenario dalla nascita, all'epoca aveva 47 anni ed era già considerato tra i più grandi. Non sempre la biografia di un artista può spiegare la grandezza della sua opera. Ma, nel caso di Bergman, vale la pena leggere alcuni passaggi della sua famosa autobiografia Lanterna magica relativi all'educazione ricevuta in casa dal padre che - ricordiamolo - era un pastore luterano, la mamma una donna di origini olandesi e poi c'era un fratello di quattro anni più grande e una sorella di quattro più piccola: «La nostra educazione si basava per la maggior parte sui concetti di peccato, confessione, punizione, perdono e grazia (...) in ciò era insita una logica che noi accettavamo e credevamo di capire. Questo fatto contribuì forse alla nostra ingenua accettazione del nazismo». A parte l'importante riferimento al nazismo di cui il regista è stato da giovane un ammiratore («Per molti anni fui dalla parte di Hitler, mi rallegrai dei suoi successi e provai dolore per la sua sconfitta») salvo poi ricredersi alla notizia dei campi di sterminio («Il disprezzo di me stesso - che già mi opprimeva - si rafforzò fino a superare il limite del sopportabile»), il sistema punitivo in casa Bergman iniziava con la scoperta del delitto, poi «il criminale confessava davanti al giudice di primo grado, vale a dire alle domestiche o alla mamma» e tutto finiva dopo la cena con le parti convocate nella camera del padre quando «venivano calati i pantaloni e mutande e il criminale doveva sdraiarsi a pancia in giù sul cuscino, qualcuno lo teneva saldamente per il collo e i colpi venivano inferti». Esattamente come accade, inquadratura per inquadratura nel capolavoro del regista, Fanny e Alexander del 1983 (4 Oscar), una specie di testamento spirituale, un riassunto di 40 anni di cinema. Ingmar Bergman è ovviamente il giovane Alexander, la casa quella natale di Uppsala, la scoperta del proiettore è quella del cinema, la nonna Helena è quella sua amata mentre il pastore Vergérus è il suo vero padre (padrone), presenza costante e ingombrante che lo ha condizionato per tutta la vita: «Non ti libererai mai di me» dirà quel personaggio.

Ecco il contesto in cui si forma il regista che, non certo a caso, sarà uno dei massimi narratori in parole e immagini dei conflitti familiari più profondi (Luci d'inverno, Sussurri e grida, Sinfonia d'autunno in cui c'è una dolente Ingrid Bergman già malata di cancro i cui rapporti con il regista dall'omonimo cognome non furono affatto semplici, lui la chiamava la Star), dei rapporti di coppia analizzati in maniera più lampante che ai raggi X (le 5 ore di Scene da un matrimonio), della dimensione spirituale nell'uomo moderno (Il settimo sigillo con il volto glaciale di Max von Sydow, La fontana della vergine, L'occhio del diavolo), dell'infanzia perduta (Il posto delle fragole interpretato a 78 anni da un altro dei massimi registi svedesi, Victor Sjöström che morì pochi mesi dopo l'uscita del film, il 4 gennaio 1960). Certamente il problema religioso è quello più presente nella sua opera, a partire dalla trilogia degli inizi degli anni '60 così definita dallo stesso regista: «Trattano di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d'inverno: certezza messa a nudo. Il silenzio - silenzio di Dio - la copia in negativo. Perciò formano una trilogia».

Poi torna il dato biografico che lo ha visto sposarsi 5 volte e avere 9 nove figli ma spesso nelle interviste si confonde sul loro numero. Tante le attrici con cui ha condiviso percorsi di vita più o meno lunghi, più o meno ufficiali: in primis Liv Ullmann con cui ebbe una figlia, e poi Harriet Andersson, Bibi Andersson, Ingrid Thulin...

Una vita dedicata alla vita che viene ben raccontata anche nel documentario Bergman 100: la vita, i segreti, il genio in uscita Home Video e on demand il 12 luglio e in prima tv esclusiva su Sky Arte HD il 14 luglio. La regista Jane Magnusson mette a fuoco un altro degli aspetti più significativi di Bergman: la prolificità (mai attenuatasi neanche durante i guai avuti con il fisco che lo hanno fatto cadere in depressione e spinto a lasciare la Svezia per la Germania Federale nel biennio 1977-78). Così si concentra sul 1957, anno in cui gira 4 film tra cui Il posto delle fragole scritto in ospedale, tormentato dai dolori di stomaco che lo perseguitavano, e che diventerà il suo film più famoso (Orso d'Oro a Berlino) in cui guarda a se stesso in maniera come sempre molto critica e si chiede che cosa succede a chi si dedica, come lui, al solo lavoro. La scena della bara qualche risposta la dà...

D'altro canto a chi gli chiedeva cosa ne pensasse di uno dei suoi primi film, La prigione (il primo Crisi è del 1946), rispondeva così: «Che era veramente un film brutto». Artista tra i più tormentati, ancora oggi ci interroga attraverso i suoi film, spingendoci alla riflessione come nessun altro riuscirà mai più a fare in maniera così organica e profonda (ma sta in buona compagnia con Rossellini, Fellini, Olmi, Bresson e Dreyer). Un «ateo cristiano» come lo ha definito paradossalmente Sergio Trasatti nella sua monografia edita dal Castoro, «nel senso che, anche quando sembra negare ogni trascendenza, tuttavia la norma etica che propugna con ostinazione è il comandamento centrale del cristianesimo: ama il prossimo tuo come te stesso».

Così alla fine, nella sua isolata e amata isola di Fårö dove ha vissuto gli ultimi 30 anni di vita fino alla morte avvenuta, come la nascita, sempre a luglio, nel 2007, risuona quella frase, alla base dell'idea di Luci d'inverno, pronunciata da un uomo che entra in una piccola chiesa di campagna, d'inverno, chiude la porta, si avvicina all'altare e dice al Cristo: «Resterò qua fino a quando non mi parlerai». Il Figlio che è anche il Padre.

Bergman, 100 di questi anni.

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