Cultura e Spettacoli

Addio a Damiani, il regista che fuggiva le mode

Addio a Damiani, il regista che fuggiva le mode

Il nome di Damiano Damiani è legato alla serie La piovra. Un prodotto, fortunatissimo, per la tv. Ma il talento di Damiani, morto novantenne, non era adatto al piccolo schermo. Vi si era adattato, ma il suo occhio aveva bisogno del cinema.
Purtroppo Damiani in vita non ha ricevuto la fortuna che meritava. Ha cavalcato sull'onda lunga del cinema italiano, quando le onde erano altissime e meravigliose, con uno stile proprio, senza lasciarsi intrappolare e condizionare dalle mode del cinema d'autore o dell'impegno. Tra gli anni '60 e '70 gira quasi un film all'anno. Dentro ci si trova di tutto. Adattamenti letterari: La noia (1963) da Alberto Moravia. Western all'italiana: Quién sabe? (1966) con Gian Maria Volontè e la commediola Un genio, due compari e un pollo (1975) con Terence Hill. Poliziotteschi: Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971). Film sulla mafia: Il giorno della civetta (1968) dal romanzo di Sciascia. Film in costume d'epoca fascista come Girolimoni, il mostro di Roma (1972).
Saranno gli anni a venire a collocare nella giusta dimensione il notevole talento di Damiani. Basta vedere uno dei suoi primi film, La rimpatriata (1963). Bianco e nero, pochi soldi. Siamo prossimi alla Milano letteraria di Giovanni Testori. Alcuni amici si ritrovano. Fanno un po' di casino. Hanno voglia di tornare giovani. Uno di loro, il più scavezzacollo, Cesarino (Walter Chiari), vuole rivedere la ragazza di un tempo. È diventata, come nel racconto di Testori, una Gilda del Mac Mahon: una prostituta. Cesarino non sopporta che gliela portino via due rozzi clienti. Si batte come un leone per strappargliela. Ha la peggio. Pestato, sanguinante e barcollante se ne va.La notte è finbita. La festa è finita. Non torneremo mai più ciò che siamo stati.
La rimpatriata è un piccolo capolavoro, al pari della prosa di Gianni Brera e Luciano Bianciardi, delle canzoni di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Un'istantanea priva di retorica (e ideologia) di un'Italia in pieno sommovimento.
Damiani radiografava i sommovimenti della capitale industriale, ma sapeva anche scrutare nell'opposto dell'immobilismo siciliano. In La moglie più bella (1970) narra la storia incredibile di una ragazzina tredicenne, Francesca, di cui si è invaghito il figlio di un mafioso. Ornella Muti è splendida, infagottata in poveri abiti. La famiglia pensa di aver vinto alla lotteria. Lei però non ne vuole sapere di quel signorino ben vestito e tracotante. E questi la disonora con la forza. Poi riparerà sposandola. Ma lei si ribella, va dai carabinieri, lo fa arrestare.

Il tempo restituirà la giusta collocazione all'opera di Damiani, regista sin troppo capace, che non ha mai avvertito la necessità di far pesare troppo il proprio nome.

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