Cultura e Spettacoli

Addio a Liz, la diva che collezionava mariti

L'attrice Liz Taylor è morta a 79 anni. I suoi occhi viola fecero innamorare eserciti di uomini. Lei ne sposò sette (il collega Richard Burton due volte). Vinse l'Oscar come migliore attrice con "Venere in visone" (1961) e "Chi ha paura di Virginia Woolf" (1967). Il suo primo partener sul set, quando aveva undici anni, fu un cane in "Torna a casa Lassie!"

Addio a Liz, la diva che collezionava mariti

«Mi piacciono le cifre ton­de » soleva dire Liz Taylor, che però di mariti ne ha avuti sol­tanto sette. Per decenni se li è sempre scelti di alto livello, se non per il conto in banca quanto meno per la notorie­tà: dal viziato miliardario fi­glio di papà Conrad Hilton al­l’aristocratico collega semoli­no Michael Wilding, dall’au­toritario produttore Mike Todd al cantante confidenzia­le Eddie Fisher, dal potente politico repubblicano Jack Warner all’unico grande amo­re della sua vita, il focoso atto­re gallese Richard Burton, non per nulla sposato due vol­te. Sorprendendo tutti con l’ultimo della lunga serie, il muratore Larry Fortensky, fol­ta capigliatura bionda, aria da bagnino di Baywatch e sguardo non proprio da aqui­la. Un abbinamento oltraggio­s­o per lei che al posto degli oc­chi aveva due splendenti fari viola. Capaci di far capitolare una schiera infinita di aman­ti, lista in cui è sempre stato difficile separare i veri dai pre­sunti. Se Frank Sinatra, Mont­gomery Clift, Vic Damone, Howard Hughes, Aristotele Onassis, Roddy McDowall, Malcom Forbes, ovvero pape­­roni e star assortiti, dovrebbe­ro entrare di diritto nella pri­ma categoria, per riempire la seconda non basta la calcola­trice.

La donna più bella del mon­do secondo una fragile gra­duatoria destinata a cambia­re «maglia rosa» a ogni stagio­ne, ha avuto una vita senti­mentale così burrascosa da far passare in secondo piano il suo talento d’attrice. Per la gioia dei tabloid e dei settima­nali femminili di tutto il mon­do, Italia ovviamente in pri­ma linea. Anche se ormai da molti anni l’ingrassata e qua­si irriconoscibile Liz compari­va, piuttosto raramente, sulle pagine patinate non per le lon­tane intemperanze, bensì per i ripetuti affronti di una sorte decisa a farle pagare un perfi­do contrappasso, nonostante la diva in età matura si fosse ampiamente riscattata dalla colpa di aver molto amato fa­cendosi grintosa paladina del­la guerra all’Aids. Nell’elen­co, tanto vasto quanto incon­trollabile, dei suoi malanni fi­gurano in ordine sparso pol­monite cronica, Parkinson, demenza senile, alcolismo, insufficienza cardiaca, oltre a un’accertata lesione perma­nente alle vertebre causata da una caduta da cavallo duran­te il Gran Premio , inteso co­me film, del 1944, girato al fianco dell’oggi novantunen­ne Mickey Rooney.

Quello era stato il terzo gra­dino di una carriera strepito­sa, cominciata l’anno prima con il lacrimevole Torna a ca­sa, Lassie! Aveva soltanto un­dici anni, la piccola figlia d’ar­te Liz: la madre era un’ex attri­ce di teatro, il padre un mer­cante di quadri. I genitori, pur essendo americani, l’aveva­no fatta nascere a Londra. Eb­bene, a fianco di un cane che per qualche anno la superò in celebrità, la giovanissima Eli­zabeth fece singhiozzare il mondo intero. Per la verità strappando qualche risata, al­meno in Italia, per via di un doppiaggio gracidante che riuscì nella missione impossi­bile di peggiorare la sua voci­na infantile, l’esatto contrario di un carattere di granito.

Altro giro, altri lucciconi, con un famosissimo film del 1949. Liz aveva compiuto il di­ciassettesimo anno, l’ultimo da nubile, quando girò Picco­le donne , una sciropposa sto­ria appesa tra sentimento e patriottismo, tratta da un po­polare romanzo per fanciulle virtuose dell’Ottocento. Sarà stato un caso, ma la sfolgoran­te bassottina Elizabeth, alme­no nei primi tempi, non ebbe partner alla sua altezza. Arti­sticamente parlando, s’inten­de. Dopo il collie le toccò infat­ti il fresco immigrato Rossano Brazzi, latin lover di ottima presenza e imbarazzanti qua­lità recitative. La gracchiante doppiatrice tornò a penalizza­re l’incolpevol­e Liz in due spu­meggianti commedie in bian­co e nero, dirette dal raffinato Vincente Minnelli, Il padre della sposa (1950) e Papà di­venta nonno ( 1951), dove il ge­nitore della finzione, il gran­de Spencer Tracy, sembra davvero voglioso di affibbiare qualche ceffone a quell’irri­tante figliola, oltrepassando i limiti del bonario copione.

Del ’51 è un film che è quasi un presagio: la Taylor ha il per­s­onaggio della rubamariti An­gela Weeekers nel drammo­ne di George Stevens Un po­sto al sole , con Clift e Shelley Winters. Un ruolo che inter­preterà pari pari nella realtà sette anni più tardi, per soffia­re il quarto marito, Eddie Fisher, all’amica del cuore, nonché frizzante collega, Debbie Reynolds. Nel 1956, quando ha ventiquattro anni e il consorte numero due (Mi­chael Wilding), ma all’oriz­zonte spunta già il numero tre (il dispensatore di Rolls Royce Mike Todd, che morirà presto in un incidente aereo, prima dunque di essere scari­cato) gira l’elefantiaco Il gi­gante , con il divo in irresistibi­le ascesa James Dean, ferma­to su una Porsche troppo velo­ce prima ancora che finissero le riprese.

Seguono altri film di grande successo, come La gatta sul tetto che scotta ( 1958), dove se­duce Paul Newman in una scena straordinariamente sensuale e per l’epoca molto spregiudicata; il drammone psicologico Improvvisamen­te l’estate scorsa (1959), in cui sfodera un clamoroso bikini bianco per contendere la lea­dership a una mostruosa Ka­tharine Hepburn; il modestis­simo fumetto Venere in viso­ne (1960), un’operina da Oscar del ridicolo, che pure le fruttò la prima di due statuet­te. La seconda, stavolta meri­tatissima, arrivò sei anni do­po grazie al mattone teatrale Chi ha paura di Virginia Wo­olf? , girato al fianco di Ri­chard Burton, conosciuto nel 1961 sul set del faraonico fia­sco da 45 milioni di dollari Cle­opatra , e sposato, la prima vol­ta, nel 1964. Nella scespiriana La bisbetica domata del 1967, diretta dal giovane Zeffirelli, è la scalpitante zitella padova­na Caterina, pronta a manda­r­e lampi dai più scintillanti oc­chi dello schermo, ma anche ad alzare le mani contro l’ai­tante veronese Petruccio, in­terpretato da un Burton anco­ra ignaro che le botte previste dalla sceneggiatura sarebbe­ro state un timido aperitivo di quanto gli sarebbe capitato nella dura vita matrimoniale. Nello stesso anno escono due solenni pizze, I commedianti , manco a dirlo con Burton, e Riflessi in un occhio d’oro , con Marlon Brando, uno dei po­chi, al pari di Dean, a resistere al fascino della maliarda Liz.

Ma la sfolgorante carriera già declina: sul set di L’unico gioco in città (1970), in cui in­crocia l’irresistibile dongio­vanni Warren Beatty, ha tren­totto anni, portati, saranno gli stravizi o il continuo su e giù delle fedi nuziali, maluccio. Neanche a farlo apposta nel 1973 è la protagonista di Di­vorzia lui, divorzia lei , un tito­lo che non potrebbe essere più autobiografico. Come sempre accanto ha Burton, da cui Liz divorzierà nel ’74, per risposarlo l’anno dopo e rompere definitivamente nel ’76. Ma Burton, a onta dei due consorti successivi, resterà l’uomo della sua tumultuosa vita, il solo tra l’altro in grado di tenerle testa, salvo forse il prematuramente scomparso Todd. Accanto a lui riposerà in eterno nel cimitero gallese di Pontrhydyfen, dove sono sepolti i genitori dell’attore, una tomba acquistata insie­me dai due coniugi ai tempi della passione e dei diamanti, delle sbronze e degli schiaffo­ni. Sempre che sia stata risol­ta una non semplice formali­tà burocratica: il trasloco del­l­a salma di Richard dalla Sviz­zera, il paese che l’aveva ospi­tato fino alla morte, avvenuta nel 1984, con la nuova moglie Sally. Ma è impossibile che la battagliera Liz non vinca l’ulti­ma battaglia.

Anche da mor­ta.

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