Cultura e Spettacoli

Ai Weiwei, un artista nel creare provocazioni

Forte della sua fama, il cinese è diventato soprattutto un attivista E da (ex) perseguitato ora fa da grancassa ai drammi dei profughi

Ai Weiwei, un artista nel creare provocazioni

Non c'è settimana che Ai Weiwei non salga all'altare della cronaca. Recentemente si sta dedicando alla questione profughi, così per rimanere «sul pezzo» dell'attualità. Sta infatti lavorando su un film incentrato sulla crisi dei migranti, che ha visitato al campo di Idomeni sul confine greco-macedone: oltre 600 ore di riprese, interviste e cammei di testimonial d'eccezione, come i divi della Hollywood più impegnata, Orlando Bloom e Angelina Jolie.

Probabilmente Ai Weiwei è oggi l'artista più famoso e più chiacchierato - al mondo, grazie a un'abilissima strategia che gli ha consentito di alternare sculture monumentali alla leggerezza del web, dove è seguito da milioni di fan. Per lui vale la domanda che si può applicare a chiunque faccia arte: quanto c'è di autentico, sincero, necessario nelle sue azioni e quanto invece non è frutto di una spasmodica ricerca di attenzione mediatica? Si tratta di opere impegnate, che offrono una riflessione sul presente o, invece, di trovate pubblicitarie oltre i limiti del cinismo? I suoi lavori più importanti nascono in atelier dove sono coinvolte tantissime persone oltretutto la mano d'opera in Cina costa pochissimo - mentre le sue apparizioni su Twitter e sui diversi blog sembrano pensate da chi è davvero capace di usare i social e creare dibattito.

Da decenni ormai l'arte contemporanea vive sulla messinscena di meccanismi di provocazione: tutti sono passati da lì e molti continuano a inventarsi operazioni scandalo come costruire un cesso d'oro, e tutti a parlarne. Eppure l'effetto choc non basta a metter radici nel sistema, bisogna passare dai musei, nelle grandi collezioni, ottenere l'avallo dei pensatori. Ecco perché Ai Weiwei ha voluto celebrare se stesso in un libro di 600 pagine edito da Taschen, leader nella divulgazione dell'arte, in tre lingue e al prezzo tutto sommato abbordabile di euro 49,99, anche se ne esiste un'edizione limitata proposta a 1.000 euro. Scegliere dunque di essere inserito in un catalogo popolare significa volersi far conoscere da un pubblico sempre più ampio, ben aldilà degli addetti ai lavori da cui spesso è criticato per la sua spericolatezza. Il volumone ripercorre una carriera ultratrentennale, dal 1983 a oggi, alternandola con una biografia da «eroe del contemporaneo» che sembra scritta apposta per assurgere al mito. Anche perché la definitiva affermazione internazionale gli giunge dal 2011, non per merito di una mostra ma dopo la fine della detenzione cui l'aveva costretto il governo cinese.

Nato nel 1957 a Pechino, Ai è certo un predestinato a non avere vita facile con il partito comunista: già il padre fu emarginato dal regime e poté tornare nella capitale solo nel '76 dove il giovane comincia gli studi in cinema; nel 1981 segue la sua compagna a New York, cominciando così ad avvicinarsi all'arte. All'inizio è solo un pittore, neanche troppo talentuoso, finché non scopre il lavoro di quelli che saranno i suoi mentori, Duchamp e Warhol. Alla fine degli anni '90 scoppia la bolla dell'arte cinese, complice la globalizzazione: primo ad accorgersene Harald Szeeman che lo invita alla Biennale di Venezia del '99. Da qui parte la carriera internazionale di un artista che ha spesso lavorato sull'ambiguità di significato, diverso in occidente rispetto alla Cina. Da noi «andiamoci a prendere una tazza di tè» suona amichevole, mentre questa frase viene usata dai poliziotti comunisti prima di un interrogatorio. Quando vernicia di bianco 132 anfore neolitiche è come se volesse sovrapporre al nostro paradigma delle avanguardie la cancellazione del passato e del classicismo avvenuta nel suo paese.

Si addice ad Ai Weiwei una monumentalità filtrata dal gusto minimalista e trasformata in performance. Gli piace molto usare gli altri per le proprie invenzioni: 1.001 concittadini alla Documenta 2007, 1.600 persone che alla Tate di Londra nel 2010 hanno modellato, dipinto, cotto e installato oltre 100 milioni di semi di girasole. Piaccia o non piaccia il suo modus operandi, non gli è estraneo il senso del rischio. Soprattutto, è la contraddizione impersonificata, tra ironia, sarcasmo e capacità di dissertazione. Dal 2005 «scopre» internet: da allora i suoi seguitissimi interventi mettono sotto scacco il sistema politico. Forte di una fama sempre più diffusa, critica la polizia e il partito con affermazioni che non sarebbero permesse a cittadini normali, finché con il pretesto di un'evasione fiscale e di bigamia non viene arrestato. E qui diventa un martire, la fama cresce ogni giorno di più, e persino i comunisti sono costretti a fare marcia indietro.

Da allora Ai Weiwei si è trasformato in attivista/artista che non può non occuparsi della sua epoca, diventando prima di tutto soggetto mediatico. Non che le sue opere più importanti siano passate in secondo piano, ma certo il clamore non si fa su un'installazione o su una scultura. Finita l'epoca in cui il perseguitato era lui, ora gli va di fare da grancassa ai drammi dei profughi di cui è piena la cronaca quotidiana. Fino a diventare insopportabile, come quando ha «vestito i panni» del bambino morto sulla spiaggia.

Difficile togliersi dalla testa che il successo non sia tanto merito suo, quanto colpa degli altri: di fronte all'arte di oggi, che osa poco, la strada più facile è ancora quella della provocazione.

Commenti