Cultura e Spettacoli

Anche gli scoppiati di Denis Johnson sono "figli di Gesù"

Undici storie minime, ma di massima potenza emotiva, sulla colpa di vivere

Anche gli scoppiati di Denis Johnson sono "figli di Gesù"

Un viaggio nel cuore di tenebra degli Stati Uniti, un ritratto spietato e al contempo poetico, violentissimo e commovente sino a lacrime straziate dal gelo degli incontri che si compiono tra le pagine di Jesus' Son dello scrittore americano Denis Johnson, un angelo caduto come il primo Kerouac e che ha incontrato sulla strada un William Burroughs senza le rughe di vecchiaia della scrittura. Perché in questi undici racconti appena ritradotti da Silvia Pareschi per Einaudi (pagg. 100, euro 16) Johnson è capace di ribaltare la lunga tradizione letteraria dei «dropout», degli «scoppiati», ridando loro una sorta di riscatto che non è mai morale: sono senza colpa, ma senza dubbio colpevoli. Sono colpevoli di tutto: soprattutto di non aver accettato, rifugiandosi nelle droghe o nell'alcol, una società che cataloga, che etichetta anche gli esseri umani come se fossimo merce.

Denis Johnson per anni è stato uno di loro, prima di diventare uno dei maggiori scrittori contemporanei americani. Nato nel 1949 a Monaco di Baviera, è cresciuto fra Tokyo, Manila e Washington al seguito del padre, impiegato del Dipartimento di Stato impegnato a mediare tra la diplomazia e la Cia. Dopo essersi laureato nel 1969 in scrittura creativa all'Università dell'Iowa, allievo di Raymond Carver, caduto nell'eroina e nell'alcolismo ha vissuto per anni fra i tossicomani, ai margini della delinquenza, prima di iniziare il proprio recupero e di insegnare nella prigione di Phoenix e poi in quella stessa Università che l'ha visto laureato. Con Albero di fumo (in Italia edito da Mondadori), romanzo che racconta le macerie non solo morali della Guerra del Vietnam, ha vinto il National Book Award nel 2007 ed è stato finalista del Pulitzer (così come con il romanzo breve Train Dreams). Ma il primo vero successo l'ha raggiunto nel 1983 con Angeli (in Italia da anni fuori catalogo per Feltrinelli), la storia di due diseredati in corsa verso la tragedia all'ombra del «sogno americano», un romanzo che ha portato Philip Roth a scrivere di «una prosa di sorprendente vigore, un piccolo capolavoro», mentre John le Carré ha scritto: «Da anni non mi capitava di leggere un'opera prima di questo livello». Tuttavia Johnson è nato come poeta, amato dal grandissimo Mark Strand, e purtroppo a oggi ancora inedito in Italia: le sue prime sillogi sono del 1969, lo stesso anno nel quale ha deciso di ambientare i racconti di Jesus' Son.

Pubblicati nel 2000 negli Stati Uniti, oggi considerati dal New York Times tra le migliori 25 raccolte di racconti di sempre, trasposti sul grande schermo nel 1999 (tra i protagonisti Dennis Hopper), raccontano le vicende, chiaramente autobiografiche, di un tossicodipendente che tenta di porre fine al suo continuo peregrinare per le strade d'America in un paese dell'Idaho chiamato Good Grief (Buon Dolore), mentre il titolo è ispirato alla canzone Heroin di Lou Reed i cui versi Johnson riporta nell'epigrafe all'inizio del libro: «When I'm rushing on my run,/ And I feel just like Jesus's Son».

Sono short stories che possono essere lette come i capitoli di un romanzo: il legame è dato dall'io narrante in una sorta di confessione mutilata dal troppo vivere che diventa una Via Crucis di cui non si vede mai l'ultima stazione. È un viaggio tra l'inutilità di una vita passata tra bar di quarta categoria, centri di recupero per veterani e alcolisti dove si incontrano storie dimenticate anche da un Dio che, però, sembra soffiare su tutti i protagonisti per portarli non sulla retta via, ma almeno su una strada che non abbia precipizi da entrambi i lati. Non a caso lo stesso Johnson si è definito «uno scrittore cristiano»: non c'è nei suoi racconti una malinconica ricerca di una Redenzione, ma il farci comprendere che per i disperati a far male non è la Croce, bensì i chiodi. Non c'è requie, in queste pagine: per i personaggi come per il lettore. Incidente durante l'autostop non è un racconto, ma un colpo al cuore, allo stomaco, quasi bisogna arrendersi, poggiare per un attimo il libro, interrompere la lettura, talmente sono forti, reali, vividi la storia che racconta e lo stile di scrittura, tra allucinazioni e dolore lancinante che diventa quasi fisico per chi legge. Eppure si arriva alla fine, piangendo, pensando che no, non è possibile un mondo così violento, così barbaro, così casualmente fatale, alla fine così ingiusto. Eppure è un miracolo di scrittura. Ci si chiede come l'autore sia riuscito a mettere le impronte digitali della nostra anima sul foglio, mostrandoci che di tutto noi siamo i primi colpevoli.

Lo stile di Johnson raggiunge in Jesus' Son i suoi vertici, come quando scrive: «L'acquazzone sferzava l'asfalto e gorgogliava nei solchi. I miei pensieri sfrecciavano pietosamente. Il commesso viaggiatore mi aveva dato delle pasticche che mi avevano scorticato le pareti delle vene. Mi faceva male la mandibola. Conoscevo per nome ogni goccia di pioggia». Dopo aver letto le sette pagine di Incidente durante l'autostop entrerete per forza nei racconti di Johnson, li divorerete senza accorgervi di essere divorati. È Dolore. Dolore puro. Senza via di scampo. È la Vita, quella appesa a un filo scoperto dell'alta tensione che chiamiamo Destino. Leggete Beverly Home, che ricorda Il bagno, in assoluto il miglior racconto di Raymond Carver, per uscire da questo libro che vi rimarrà impresso a lungo e che sicuramente vi porterà a scoprire tutti gli altri libri di Johnson: da Nessuno si muova a Mostri che ridono a Cronache anarchiche, i reportage giornalistici «dall'America e dai confini del mondo», irraggiungibili per stile. Molti dei suoi titoli in Italia sono fuori catalogo, ma sono in ritraduzione per Einaudi, compresa la raccolta postuma The Largesse of the Sea Maiden.

Perché Denis Johnson è morto l'anno scorso a 67 anni per un cancro al fegato, ma siamo sicuri che varranno le parole che ha scritto in Jesus' Son: «Tutti questi svitati, e io che in mezzo a loro me la cavo sempre meglio.

Non sapevo, non avrei mai immaginato di striscio che poteva esserci un posto per quelli come noi».

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