Cultura e Spettacoli

Ascesa e caduta del "Moro". Il più grande degli Sforza

Carlo Maria Lomartire, nel secondo capitolo della sua trilogia, racconta la Milano di Leonardo

Ascesa e caduta del "Moro". Il più grande degli Sforza

Poche famiglie hanno influenzato la storia dell'Italia, tra la fine del Trecento e l'inizio del Cinquecento come hanno fatto gli Sforza. Questo potentissimo casato ha un'origine tutt'altro che nobiliare. All'inizio di una delle più folgoranti ascese familiari del rinascimento c'era un ragazzone dalle spalle larghe e la propensione a menar le mani. All'apparenza, insomma, un contadinotto come tanti altri. Ma lui, Giacomo Attendolo (1369-1424), era diverso. Aveva coraggio, ostinazione e, in sovrappiù, una certa scaltrezza da campagnolo che, col tempo, si sarebbe trasformata in tattica sul campo di battaglia e poi, addirittura, in strategia politica vera e propria. Il primo ad accorgersene fu il condottiero Boldrino da Panicale, quando per caso si accampò vicino a Cotignola, in Romagna. Giacomo, detto Muzio, cercò di sloggiarlo dai campi della sua famiglia. Il Capitano di ventura si rese conto che quel sedicenne aveva stoffa per l'omicidio organizzato (anche detto guerra). Del resto gli Attendolo combattevano, da anni, una sorta di conflitto rusticano con un'altra famiglia della zona, i Pasolini. Lo arruolò come «saccomanno» (leggasi scudiero) e, in brevissimo tempo, Muzio fece carriera sino a mettere su una compagnia di ventura tutta sua. Riuscì a far strada ed ebbe nel figlio Francesco (1401-1466) un degno successore, sebbene figlio illegittimo. Fu proprio lui che riuscì a consolidare definitivamente la famiglia e a prendere il controllo di Milano, mettendo fine alla Repubblica ambrosiana e stabilizzando l'Italia con la pace di Lodi.

La lunga epopea di questa famiglia straordinaria è stata raccontata l'anno scorso da Carlo Maria Lomartire in Gli Sforza. Il racconto della dinastia che fece grande Milano (Mondadori). Ora è arrivato il secondo capitolo di quella che sarà una trilogia: Il Moro. Gli Sforza nella Milano di Leonardo (Mondadori, pagg. 264, euro 20). Come fa intuire il titolo del saggio, così scorrevole da essere praticamente un romanzo, racconta l'ascesa all'interno delle famiglia del suo esponente più noto al grande pubblico: Ludovico Maria Sforza detto il Moro (1452-1508). Silenzioso, carnagione olivastra, capelli corvini, fisico asciutto ma dotato di grande forza, occhi fiammenggianti e perspicaci, il Moro non era destinato ad ereditare il ducato di Milano. Probabilmente la sua astuta madre, Bianca Maria Visconti, avrebbe preferito lui al molto meno adatto fratello maggiore Galeazzo Maria Sforza (1444-1476), ma la successione era chiara.

A riaprire la questione ci pensarono però gli errori di calcolo di Galeazzo Maria. La sua politica aggressiva e il suo carattere sprezzante, la passione per le riforme, spesso ben pensate ma portate avanti senza prudenza, gli crearono molti nemici. Il 26 dicembre 1476 mentre percorreva la navata della chiesa di Santo Stefano, sbucarono dalla folla «tre traditori congiurati» e, come racconta Lomartire, «Giovanni Andrea Lampugnano fu il primo a scagliarsi contro il duca... per l'incredulità quasi non sentì il dolore del primo colpo di pugnale all'addome, seguito subito da altri tre al torace... prima di cadere a terra ebbe solo il tempo e la forza di sospirare, come a se stesso: Io sono morto». I congiurati vennero rapidamente eliminati, il loro leader Girolamo Olgiati per dare l'esempio fu squartato. Sul trono ducale a quel punto però salì Gian Galeazzo Visconti, un bambino di sette anni affidato alla tutela della madre, Bona di Savoia. Ci volle poco perché il potente segretario ducale, Cicco Simonetta, intervenisse per accentrare nelle proprie mani tutto il potere, esiliando anche Ludovico il Moro e gli altri fratelli del defunto duca.

Si scatenò una vera e propria guerra civile da cui il Moro uscì trionfante nel 1480, quando ormai Simonetta era diventato uno degli uomini più odiati della città. Gian Galeazzo finì rinchiuso nel castello di Pavia, anche se Ludovico, formalmente governava solo come suo reggente. Si era instaurata una sorta di diarchia che non poteva durare: da un lato lo scaltro Lodovico, dall'altro il fragile Gian Galeazzo, divenuto adulto che poteva farsi forza solo del suo legame matrimoniale con Isabella d'Aragona. Nel 1494 il re di Francia Carlo VIII scese in Italia con l'appoggio di Ludovico proprio per colpire gli aragonesi di Napoli. Lo stesso anno morì Gian Galeazzo. Ulcera o veleno? Non lo sapremo mai. Però il potere del Moro a quel punto pareva diventato inscalfibile. Si fece nominare duca dall'imperatore Massimiliano al di là di ogni discendenza legittima e poi con rapida giravolta si schierò contro Carlo VIII che ormai aveva conquistato Napoli. Una mossa abilissima, però ormai i tempi erano cambiati.

Nel momento stesso in cui l'astro del Moro era giunto al massimo splendore i destini d'Italia erano ormai segnati. Nel 1499 tornarono in Italia i francesi sotto la guida del loro nuovo re Luigi XII. Milano fu il loro primo bersaglio. Ludovico fuggì nei territori imperiali e l'anno dopo provò a riprendersi il ducato. Fallì e fu preso prigioniero dai francesi. Morì nel torrione del castello di Loches il 27 maggio del 1508. Aveva 56 anni.

L'astro della sua famiglia era ormai in caduta libera anche se gli Sforza lottarono sino all'ultimo per restare sulla scena politica.

Ma questo Lomartire lo racconterà nel terzo volume dell'opera: Gli ultimi Sforza.

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