Prima della Scala

"Attila" divenne un simbolo della lotta per l'Indipendenza

La prima rappresentazione fu nel 1845 alla Fenice Durante il Risorgimento se ne fece una lettura politica

"Attila" divenne un simbolo della lotta per l'Indipendenza

Il 26 Dicembre 1846, nove mesi dopo la prima rappresentazione assoluta alla Fenice di Venezia, anche il Teatro alla Scala offriva al pubblico milanese Attila, il nuovo melodramma, in un prologo e tre atti, di Giuseppe Verdi e Temistocle Solera, che torna sette anni dopo l'ultima ripresa del 2011, per inaugurare la stagione 2018-19.

Nel '46 l'esito fu felice, anche se gli appassionati si divisero sul valore dell'opera. Da una parte non pochi elogi (rivolti anche al libretto del Solera, completato nel trio finale da Francesco M. Piave); dall'altra alcune riserve, che sottolineavano un calo nell'ispirazione del maestro rispetto alle opere precedenti, vale a dire i primi popolarissimi capolavori Nabucco, Lombardi, Ernani. Uno dei critici più ascoltati del tempo, lo scrittore dei Cento Anni, Giuseppe Rovani, fanatico rossiniano e quindi non molto ben disposto nei confronti dell'arte vigorosa e ruvida di Verdi, sentenziò che Attila, non rappresentava né un passo in avanti né uno indietro per il compositore del momento. Rovani fu certamente attenuato nel suo giudizio (in genere piuttosto critico su Verdi) dal fatto che il protagonista alla Scala fu il basso bergamasco Ignazio Marini (di cui il Museo Teatrale alla Scala conserva un bellissimo ritratto del conterraneo Piccio), cantante che ammirava e di cui era grande amico (per tanti anni il non certo abbiente Rovani pagò il conto all'osteria ad un giovanotto male in arnese solo per il fatto che era il figlio del grande Marini). Le cronache riportarono che, pur indisposto, l'Attila-Marini aveva «voce più bella e più forte di qualunque altro basso nella pienezza de' suoi mezzi ...»

Verdi fu preso dalla tragedia del drammaturgo tedesco Zacharias Werner soprattutto a partire dal fascino che emanava il famoso incontro fra il re degli Unni e Papa Leone, che fermò l'invasione della penisola. Momento non a caso culminante di tutta l'opera. «L'efficacia del cruciale faccia a faccia viene potenziata nel libretto anche perché anticipato da un sogno premonitore, da cui fra l'altro Attila si sveglia coi sudori freddi, ben lontano dal coraggio indomito e dall'autocontrollo ferreo con cui Werner si era curato di ritrarlo», come scrive Elisabetta Fava nel suo informato studio della fonte del libretto.

Assente in Werner, questa scena straordinaria del sogno che poi diviene realtà «è modellata sugli esempi shakespeariani in cui chi ha creduto di vedere un fantasma o di avere una visione chiede a chi gli sta accanto se abbia visto qualcosa, senza riuscire però a ottenere una risposta dal compagno, che invariabilmente dorme. Inoltre nella versione librettistica Leone non santifica Attila come accadeva invece nel finale di Werner, () bensì lo atterra, incrina il suo coraggio e lo mette in ginocchio: modifica di assoluta importanza per Solera, che era neoguelfo e che sperava quindi in una risoluzione della questione italiana per mano del Papa: nel 1846 questo sogno non era ancora tramontato e anzi l'elezione di Pio IX sarebbe apparsa per qualche tempo come la realizzazione di quest'utopia».

Attila, nei tumultuosi decenni prima dell'Unità d'Italia, gli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento, ebbe rapida diffusione e successo anche all'estero, dove l'impeto dei cori dei barbari e dei soldati romani e quello delle numerose gagliarde cabalette solistiche ebbero effetto dirompente, consolidando la fama di Verdi come compositore con l'elmetto sulla testa. Lo testimoniano, solo per rimanere alla Scala, fra il 1849 e il 1867, ben quattro riprese importanti. Poi cominciò un'eclisse che investì molte delle opere scritte da Verdi nel periodo pre-unitario, soprattutto quando la critica e il pubblico del Regno d'Italia conobbero le opere della piena maturità e sentirono il bisogno di prendere le distanze da quanto era nato nel periodo risorgimentale. Anche perché era prevalsa una lettura eccessivamente politica di Attila, basata soprattutto sulla leggenda narrata a fine secolo XIX dal marchese-biografo verdiano Gino Monaldi: il pubblico della prima veneziana dopo l'invettiva del baritono, il generale romano Ezio ad Attila, Avrai tu l'universo: resti l'Italia a me!, proruppe «in un grido formidabile: A noi l'Italia! A noi!».

Oggi abbiamo imparato, a partire dalle rivelatrici letture di Riccardo Muti al Comunale di Firenze nel 72, protagonisti non dimenticati Nicolai Ghiaurov e Lejla Gencer, poi alla Scala nel '91 con Samuel Ramey, e ancora a Roma e al Metropolitan di New York, che Attila non è solo un'opera scritta con la rabbia in corpo, ma è ricca di episodi di straordinaria suggestione musicale: bastano i due concertati che seguono l'incontro con Leone e il banchetto interrotto da venti premonitori di sventura o il temporale pre-espressionista e la seguente alba luminosa sulla laguna.

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