Cultura e Spettacoli

Aveva ragione Richelieu a invocare la ragion di Stato

Nelle lezioni di Romeo il profilo del cardinale che cambiò la politica e l'Europa. Un esempio da non dimenticare...

Dino Cofrancesco

Davvero felice l'idea di pubblicare le dispense del corso su Richelieu (Donzelli, pagg. XXII-170, euro 28) che il giovanissimo Rosario Romeo tenne nell'anno accademico 1963-64 alla Sapienza di Roma. Il testo è introdotto da Guido Pescosolido, brillante allievo dello studioso siciliano che è forse il maggiore storico italiano della seconda metà del '900. Romeo, scrive il curatore, «ha realizzato più di tutti la fusione tra storia politica e storica economica», ma questo libro «è un testo di elevatissima storia politico-istituzionale» che rivela lo «storico eccelso delle relazioni internazionali e della diplomazia» quale si sarebbe rivelato nella monumentale biografia di Cavour (1969-1984). La tesi del lavoro è nel sottotitolo Alle origini dell'Europa moderna: senza il grande cardinale la storia europea sarebbe stata molto diversa e se anche non si fosse realizzata la monarchia universale (sotto gli Asburgo) vagheggiata da Tommaso Campanella certo non avremmo avuto quella Pace di Vestfalia e quell'equilibrio tra le potenze europee, alla cui dialettica si deve il primato del Vecchio Continente.

Henry Kissinger, nel suo magistrale saggio Ordine mondiale (Mondadori, 2015) ha scritto: «Quando Richelieu guidava la politica del suo paese, i trattati di Machiavelli sull'arte di governo erano da tempo in circolazione. Non si sa se Richelieu avesse familiarità con questi testi sulla politica di potere. Di certo praticava i loro principi essenziali. Sviluppò una concezione radicale dell'ordine internazionale, inventando l'idea che lo Stato fosse un'entità astratta e permanente esistente di per sé, le cui necessità non erano determinate dalla personalità del sovrano, dai suoi interessi familiari o dalle esigenze universali della religione. La sua stella polare era l'interesse nazionale che seguiva principi determinabili razionalmente: cosa che in seguito divenne nota come raison d'état. Perciò esso dovrebbe costituire l'unità fondamentale delle relazioni internazionali. Richelieu plasmò lo Stato in formazione come strumento di alta politica. Centralizzò l'amministrazione a Parigi, creò i cosiddetti intendenti o commissari professionisti per proiettare l'autorità del governo in ogni distretto del regno, rese efficiente la riscossione delle tasse e mise decisamente in discussione le tradizionali autorità locali della vecchia nobiltà. Il potere reale avrebbe continuato a essere esercitato dal re in quanto simbolo dello Stato sovrano ed espressione dell'interesse nazionale». Se Kissinger avesse letto le dispense di Romeo vi avrebbe trovato l'illustrazione, fondata su una solida documentazione storica, della sua tesi.

Ma va detto che viviamo da tempo in un clima culturale in cui figure come Romeo e Kissinger sembrano appartenere a un'epoca remota e per molti aspetti incomprensibile, per la quale la ragion di Stato - cioè l'interesse di uno Stato, indipendentemente dalla sua forma di governo, a preservare e a consolidare la sua unità e indipendenza - è la falsa coscienza di governanti ambiziosi che a tutto pensano tranne che alla pace e alla prosperità dei popoli. Fu soprattutto l'epoca romantica a rimuovere l'«autonomia della politica» teorizzata da Machiavelli - un autore ben noto a Romeo e a lungo studiato da uno dei suoi più insigni Maestri, Federico Chabod. Non a caso Richelieu appare come una figura diabolica in Cinq-Mars di Alfred De Vigny, in Marion de Lorme di Victor Hugo, per non parlare dei Tre Moschettieri di Alexandre Dumas.

Romeo non ne fa certo un cavaliere dell'ideale, non si nasconde i limiti dello statista, non gli dà molto credito quando, nel Testamento, presenta la propria opera come razionalmente predeterminata, sa bene che anche la grande politica «si afferma giorno per giorno di fronte a circostanze sempre mutevoli». Inoltre ne ridimensiona alquanto la modernità, pensando forse alla nota pagina di Tocqueville il quale, in L'Antico regime e la Rivoluzione, ricordava: «Meno di un anno dopo l'inizio della Rivoluzione, Mirabeau scriveva in segreto al re: Confrontate il nuovo stato di cose con l'antico regime; di là nascono le consolazioni e le speranze. Una parte dei provvedimenti dell'Assemblea nazionale, la più cospicua, è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non conta niente, dunque, essere senza parlamento, senza paesi di Stato, senza corpi del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L'idea di formare un'unica classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: un simile appiattimento facilita l'esercizio del potere. Decenni di monarchia assoluta non avrebbero fatto per l'autorità regia quanto ha fatto questo unico anno di rivoluzione».

Per Romeo, invece, Richelieu restava l'uomo d'Ancien Régime che non pensava certo a distruggere «i principi di vita su cui si reggeva la nobiltà. Non era un borghese, non era un sostenitore dell'eguaglianza, un precursore della Rivoluzione francese: pensava che la nobiltà dovesse avere una funzione particolare nel regno, ma doveva averla all'interno dello Stato, non come elemento eversivo e d'opposizione particolaristica».

Il realismo di Romeo ha l'inattualità degli «eterni veri» di cui parlava Giambattista Vico. Per questo il suo Richelieu non diventerà certo un bestseller. Leggere oggi che in certi momenti «l'uso della forza» può creare «valori di civiltà» potrebbe ispirare una circolare ministeriale in cui si inviti a non adottarlo. Eppure in un'epoca in cui «l'Occidente ha perso la bussola», per citare un recente editoriale di Angelo Panebianco, il richiamo di Romeo al senso della storia potrebbe essere un antidoto ai veleni del buonismo e del politicamente corretto: «Non è mancato, nella storiografia cattolica, chi ha deplorato la politica del Richelieu, sostenendo che senza il suo intervento nella guerra dei trent'anni non ci sarebbe stato neppure Hitler, perché non ci sarebbe stato neppure Bismarck e, via via, all'indietro, la guerra d'indipendenza tedesca contro Napoleone, Federico II, il grande elettore ecc: se non ci fossero stati tutti questi se, dunque, la storia si sarebbe svolta ben diversamente. Ma le deplorazioni di tal fatto non hanno alcun senso. Possiamo dire soltanto che questi eventi hanno caratterizzato la storia europea dei secoli successivi, e dobbiamo ricordare che fu allora che la storia d'Europa prese questa via e non altra».

Sono riflessioni ispirate a un'etica antica, classica, che sembra eclissata nelle nostre menti e nella nostra political culture ma che dovremmo recuperare se non vogliamo essere condannati alla «maledizione della nullità delle creature» che Max Weber vedeva incombere sull'Europa devastata dalla Grande Guerra.

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