Cultura e Spettacoli

La bacchettata

Il Don Carlo di Verdi è un'opera che non finisce mai di sorprendere, a partire dalla questione della versione scelta (francese, italiana, quattro o cinque atti, con o senza ballo). Per festeggiare i 150 anni dalla prima esecuzione, l'Opéra di Parigi ha aperto la stagione (trasmessa su Arté) con l'originale francese senza il Ballo della regina. Bello conoscere le cose che Verdi ha espunto nei rifacimenti, ma mettere la «s» finale al Don Carlo significa scegliere una lingua difficile da cantare (e da capire), anche disponendo di un cast stratosferico: il tedesco Jonas Kaufmann, tormentato Infante, il russo dovizioso Ildar Abdrazakov (Filippo II), l'elegante bulgara Sonya Joncheva (Elisabetta di Valois), la florida lituana Elina Garança (Eboli), il nobile baritono gallico Ludovic Tézier (Marchese di Posa). Questi era anche l'unico madrelingua camaleonte Kaufmann a parte non bisognoso di sottotitoli.

Il regista Krzystof Warlikowski, genio «sulfureo» dell'era Mortier, fischiatissimo dal pubblico della prima, ha avuto la notevole idea di avvicinare l'azione nella Spagna del franchismo mediano (quello sdoganato da Eisenhower), infarcendo le scene di personali ossessioni cinefile (tra Goya, Norman Bates e Méliès) e ignorando la spettacolarità del dramma (l'autodafé senza rogo, con un solo eretico, descamisado di passaggio!) Magnifico sentire ben suonare l'orchestra e ben cantare il coro (per un simile parterre des rois vocale rimane sana invidia), ma alla lunga l'efficienza fonica del direttore Philippe Jordan, impermeabile alle emozioni, diventava inutile rotocalco patinato.

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