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"Batto l'oceano in tempesta ma perdo contro Hollywood"

L'attore amareggiato per l'esclusione dalla cinquina degli Oscar: "La nomination avrebbe potuto aiutare il mio ultimo film “All is Lost”"

"Batto l'oceano in tempesta ma perdo contro Hollywood"

da Los Angeles

Robert Redford ha saputo della sua esclusione a sorpresa dalla cinquina dell'Oscar come migliore attore (per All is Lost, da giovedì nelle sale) mentre si accingeva a presentare la 30esima edizione del suo festival di Sundance, a Park City. E ci è rimasto un po' male, nonostante l'età (77 anni), il successo e la saggezza potrebbero indurre a supporre il contrario.

«Me ne importa eccome», afferma il celebre divo sorridendo un po' amaramente. «Perché vi stupite? Mi importava la nomination soprattutto per dare una mano al film, che in America a mio avviso è stato mal distribuito e non ha avuto il pubblico che meritava», aggiunge con una piccola stoccata alla compagnia Lionsgate. Un film così, un uomo solo su una barca rotta in mezzo all'oceano, senza dialogo e solo due parole - SOS e Cazzo! - avrebbe giovato d'una spintarella più convinta. E un po' mi rode».

Possibile che dica così? Una leggenda vivente come lui? Il grande Gatsby (l'originale), Jeremiah Johnson di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, il Sundance Kid in Butch Cassidy, l'affascinante truffatore de La stangata? Eppure Redford continua a considerarsi un incompreso. Proviamo a capirlo meglio in questo nostro incontro.

Signor Redford, lei ha detto spesso di aver sofferto il complesso del bello...

«È vero, quando ero giovane e cercavo di farmi spazio nel cinema. Capisco le attrici molto belle alla Charlize Theron che per recitare in film di qualità magari si imbruttiscono un pochino. Io avevo iniziato a recitare a New York studiando all'Actors Studio, insieme a De Niro e Dustin Hoffman, subito dopo Marlon Brando. Credevo, come credo tuttora, nell'arte della recitazione, sia cinema, Tv o teatro. Non che mi desse fastidio esser considerato attraente ma di sicuro mi ha limitato nelle scelte. E anche nel modo in cui venivo percepito dai critici: non mi sentivo preso sul serio».

E adesso?

«Mi sono dovuto fare largo da solo, l'età, l'esperienza e le rughe aiutano. Ma non venir preso sul serio è qualcosa con cui ancora oggi faccio i conti. È un pensiero fastidioso che striscia tuttora in angoli reconditi dell'Io».

All is Lost è un film atipico per lei, ne conviene?

«Non del tutto. Certo, è un film unico: 30 pagine scarne di copione, di pura descrizione e dettagli tecnici. Un film difficile da girare, che mi ha messo a confronto col mio spirito di sopravvivenza. Ma a me piacciono queste storie, uomo contro la natura. In Corvo rosso, 40 anni fa, mi gettai a capofitto nella natura pura e cruda. Il regista Sidney Pollack aveva voglia di realismo. Io anche. Eravamo in Montana d'inverno. C'era un ruscello semi ghiacciato, Jerimiah aveva fame e voleva pescare salmoni, e allora si butta dentro l'acqua gelata. Quello che si vede nel film sono io, non uno stuntman. Io in Montana d'inverno. A momenti morivo di ipotermia. Ma è stato uno di momenti più belli della mia carriera, insieme a certe scene di All is Lost».

Il suo momento più felice di attore?

«Quando Paul Newman, che aveva dieci anni più di me ed era già una grande star nel 1974, insistette per farmi recitare accanto a lui in Butch Cassidy. Nessuno mi voleva a Hollywood. Lui fece lobby per me. Credeva in me. Nutro per lui un'immensa gratitudine».

Lei ha fondato Sundance ed è considerato il «protettore» del cinema indipendente americano. In che misura sono migliorate le cose?

«Il cinema indipendente ha sempre avuto difficoltà, ieri come oggi. Ha sempre lottato per sopravvivere. È sempre andato controcorrente rispetto all'industria mainstream e ai gusti del pubblico di massa. Però oggi si avvale di piattaforme distributive e mezzi di auto finanziamento come Kickstarter che fanno ben sperare».

Com'è cambiato il festival di Sundance nel corso degli anni?

«Iniziai prima con il workshop quindi col festival, che per ovvie ragioni avrebbe dovuto svolgersi a Los Angeles o New York. Ma a me non piaceva l'ovvio e piaceva invece la natura, l'aria aperta, e mi dissi, “Facciamolo in montagna d'inverno, con la neve, cinema e sci, facciamo una cosa strana, bizzarra, folle!“ Ha avuto successo. Ma fino a qualche anno il festival era più spontaneo e secondo me più divertente. Oggi è più commerciale, frequentato, organizzato. Ma gli indipendenti vanno sempre incoraggiati. L'altro giorno ero a New York per il premio della critica locale, e insieme a me c'erano registi come David O. Russell e Alfonso Cuaron, ora al top, che iniziarono da noi, ai seminari e al festival di Sundance. Bisogna continuare così».

Cosa pensa del fattore età a Hollywood? È vero che dopo una certa età diventa praticamente impossibile lavorare ad alto livello?

«Confermo che Hollywood ha l'ossessione dell'età. Cosa che mi sembra molto triste. In giro, tra noi attori, si vedono facce da replicanti, volti inespressivi e rigidi per via dei tanti lifting e plastiche facciali. Patetico. Vuoi rimanere giovane e diventi un mostro. Io vivo la mia vita così come viene e vado fiero delle mie rughe. Guai a cancellarmele con photo-shop.

Mi vergognerei di me stesso».

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