Cultura e Spettacoli

Le biografie dei grandi vanno di moda perché il presente è vuoto

Da Mussolini a Caravaggio guardiamo al passato solo per dare un senso all'oggi

Le biografie dei grandi vanno di moda perché il presente è vuoto

Sono molto contento del successo di M.Il Figlio del secolo di Antonio Scurati, ma ho la sensazione che questo successo sarebbe di proporzioni maggiori se, anziché la firma di un eccellente scrittore, M portasse quella di uno di quei bravi scrittori di genere, che vendono migliaia e migliaia di copie senza poter aspirare a grandi premi o riconoscimenti. Mi domando, in altre parole, se il prestigio dell'autore, e la complessità della sua scrittura, non costituiscano un deterrente nei confronti di un potenziale pubblico meno interessato alla qualità letteraria che al nome del protagonista, in questo caso Benito Mussolini. Il problema non è di Scurati o mio, ma di tutta la cultura italiana (e non solo) in questo momento storico. È di questo che vorrei parlare.

Iscrivo M in tutta una serie di fenomeni culturali, riguardanti non solo la letteratura e l'editoria in genere, ma anche la tv, il cinema e, in misura minore, il teatro, dai quali emerge un quadro generale che non tutti gli operatori culturali hanno ben chiaro. Tra questi fenomeni posso annoverare il successo strepitoso dei programmi di Alberto Angela, quello delle biografie in genere all'interno del mercato librario, nonché il biografismo che domina i programmi culturali che ci vengono dal mondo anglosassone e quelli che noi stessi produciamo per quel mercato: come per esempio quelli sull'arte italiana, che desta sempre grande interesse e vanta non solo numerose opere divulgative ma anche allestimenti molto seri, come la grande mostra su Mantegna e Bellini aperta a Londra nei giorni scorsi, visitabile fino al 27 gennaio. Qualcosa, insomma, è cambiato. La compagnia teatrale per la quale lavoro ottenne il suo maggior successo una decina d'anni fa con la Vita di Galileo di Brecht. La regia si discostava alquanto da quella, celebre, di Giorgio Strehler del 1963, al tempo in cui intorno al nome di Brecht si svolgeva un enorme dibattito. Ma la differenza non stava tanto nelle interpretazioni dei registi e degli attori, quanto nell'oggetto stesso dei due spettacoli: nel 1963 al centro dell'interesse c'erano le parole di Brecht/Strehler e la loro feroce critica contro l'oscurantismo, mentre nel nuovo millennio lo stesso centro era occupato da Galileo, dalla sua figura, dalla sua vicenda diciamo così a prescindere dalle interpretazioni dell'autore del testo. Questa differenza oggi va (insieme con molte altre cose) sotto il nome di storytelling.

Quello che oggi si vende sono storie. Qualunque prodotto deve poter produrre la sua storia. Lo sanno i pubblicitari: non si vende più l'automobile, o la merendina, ma una storia possibile che ci sta dietro, l'auto veloce non ci affascina per la sua potenza ma per gli spazi di libertà che spalanca, l'auto piccola non per la praticità ma per il glamour. Non si vende l'auto, ma la persona che ci sta dentro, la sua storia. Storytelling, storyselling.

In un quadro come questo l'autore conserva la sua importanza, ma non tanto come artista, quanto piuttosto come brand. Saviano è un brand, Alberto Angela è un brand, Toni Servillo è un brand. Sono marchi di garanzia per prodotti il cui valore intrinseco (estetico, scientifico ecc.) non è più argomento di discussione. Ma un brand non può agire come vuole: deve obbedire alla propria linea. Prendiamo il brand per eccellenza: il brand «Italia». In tutto il mondo dire «Italia» significa dire «Arte», «Bellezza», però: a) non tutti possono visitare l'Italia, perciò è necessario raccontarla attraverso i media, b) l'arte e la bellezza devono essere comunque declinate secondo un codice che è cambiato nel corso dei decenni. Una dotta presentazione tv del Caravaggio induce il pubblico a cambiare canale, mentre un programma che, con il supporto delle opere, racconti la vita disgraziata del Caravaggio, i suoi crimini e i suoi amori illeciti, ottiene grande consenso, e il vasto pubblico comincia a interessarsi all'artista. Chi, poi, gestisce i flussi turistici sa bene quanto lo storytelling li abbia modificati rispetto a venti, trent'anni fa. Va da sé che i settori in cui questo fenomeno stenta a decollare sono quelli che vivono soprattutto grazie alle sovvenzioni pubbliche.

Qualcosa è cambiato, si diceva. Ma cosa? Cosa è cambiato, per esempio, rispetto agli anni della mia formazione intellettuale, che pure furono tragici e cruenti? La risposta è semplice: il rapporto col passato. Il mio percorso formativo si fondava sulla certezza (in parte già illusoria) di un rapporto ancora vitale con la Storia: io mi sentivo il prodotto di un cammino storico partito dagli Egizi e giunto fino al dopoguerra accumulando - lezione dopo lezione, libro dopo libro - i valori di una civiltà alla quale ero fiero di appartenere. Anche la critica, le contestazioni spesso feroci, le dispute politiche appartenevano a quella stessa civiltà, muovendosi al suo interno. I professori insistevano sull'importanza del metodo storico, sul fatto che lo studio del passato richiede rigore e rispetto sia dei documenti sia della mentalità - spesso molto lontana dalla nostra - che li aveva prodotti. Se, viceversa, ci domandiamo come venga trattata oggi la Storia non tanto sui manuali ma in letteratura, nel cinema, alla tv, e anche in politica, non è difficile accorgerci che il criterio è cambiato radicalmente. Non che il vecchio metodo storico sia stato abolito, ma è stato relegato nelle accademie, nelle biblioteche.

Questo patrimonio oggi non incide più sulla mentalità corrente, che viceversa cerca nel passato un motivo di identificazione: quello che ci differenzia da Giulio Cesare o da Winston Churchill non ha più importanza, noi cerchiamo ciò che questi uomini avevano in comune con il nostro mondo, se soffrivano di stress, se tradivano la moglie, se erano dei manigoldi, perché nel passato la tecnologia, ok, era più rudimentale, gli abiti complicati da indossare, le armi poco efficaci, ma a parte questo i sentimenti, le emozioni, i dissidi erano gli stessi. Questo cerchiamo, e la ragione per cui lo cerchiamo è che l'abbiamo perso, abbiamo perso cioè quel legame vitale col passato che accentua e rende interessanti le differenze. Da bambino ascoltavo con stupore i racconti di mio nonno, della sua gioventù così lontana dalla mia, senza gelati, senza tv, senza giradischi. Ma quando il legame è rotto, le differenze cominciano a fare paura. E noi viviamo in un tempo che ha paura della diversità. Già a vent'anni pensavo che tra la mia generazione e quella che mi aveva preceduto si fosse prodotta una frattura. Forse fu colpa del '68, o forse proprio il '68 fu il primo effetto di un problema nuovo: quello di una generazione senza maestri.

I grandi scrittori italiani di allora - i Moravia, i Calvino, i Parise, i Montale - in che senso potevano fare da maestri a qualcuno? In che senso avrebbero potuto desiderare di trasmettere a un giovane il loro disincanto, la loro amarezza? Perché trasmettere una civiltà cominciata con Omero per giungere a Moravia che conversa col proprio pene? Giustamente non fecero scuola, così che quelli della mia età - i Tondelli, i Mari, i Baricco - si trovarono a dover ricominciare da capo, su modelli stranieri, sui libri e sulla lingua di seconda mano dei traduttori. Se questa sia stata una fortuna o una iattura, sarà il futuro a deciderlo. Quello che è chiaro ai nostri giorni è che quella frattura si è allargata fino a scavare un abisso tra le nostre giornate e ciò che il passato avrebbe dovuto depositare ai nostri piedi, e che giace dall'altra parte.

Per questo, quando lo affrontiamo, vogliamo vederci anche la nostra immagine.

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