Cultura e Spettacoli

"Cage, gli Who e la mia Guzzi: quarant'anni di sogni rock"

Il cantautore: "Mi bocciarono al Conservatorio e comprai una chitarra elettrica rossa. Da allora non ho più smesso"

"Cage, gli Who e la mia Guzzi: quarant'anni di sogni rock"

È ancora il simbolo della musica ribelle, quella «che ti entra nelle ossa e ti vibra nella pelle», quella che ha cambiato il mondo del rock made in Italy. Eugenio Finardi festeggia con amici e ospiti i 40 anni delle sue battaglie musicali con il cofanetto dei primi cinque album e con la tournée Diesel che si apre stasera e domani al Blue Note di Milano con quattro concerti (due per sera) per poi viaggiare in tutta l'Italia.

Allora come nasce la musica ribelle?

«Fu un'utopia realizzata da un gruppo di ragazzi in un periodo in cui si sognava di cambiare il mondo. Ecco noi abbiamo dato il nostro contributo. Come Phil Spector cambiò il suono del rock internazionale noi, da Milano, eravamo una specie di collettivo in cui non c'era un singolo musicista ma un gruppo di sognatori che si mettevano in gioco. Fu allora che anche il suono e non solo la parola si imposero nel rock italiano».

In che modo?

«Ad esempio De André mi chiamò per aprire la sua tournée, Lucio Fabbri entrò nella Pfm e gli altri come Walter Calloni suonarono un po' con tutti, da Battisti e Mina a Venditti».

Così festeggia i 40 anni di quell'esperienza.

«Tutto è nato da due scatoloni ritrovati nell'archivio della Cramps, la nostra casa discografica di allora, con dentro i nastri originali di quelle incisioni. Li ho ascoltati ed erano incredibilmente attuali, così ho deciso di rimetterli in circolazione e di suonarli di nuovo dal vivo con la stessa energia. Mi sono sentito come nella macchina del tempo, come la madeleine di Proust».

Avete dribblato la nostalgia?

«Certo, ci divertiamo sia noi sia il pubblico, come è accaduto al concerto-evento che abbiamo organizzato quest'inverno al Dal Verme di Milano. Ma i ricordi sono importanti».

Per esempio?

«Ironia della sorte, gli album di quel periodo, così come quelli degli Area e di tanti gruppi all'avanguardia, li abbiamo incisi a Cologno Monzese dove oggi sorge Mediaset, nello studio che poi divenne quello di Mike Bongiorno».

E la politica?

«Tutto era politica negli anni Settanta, si volevano cambiare le cose, c'erano gli ideali, la voglia di creare un progetto futuro, poi tutto è degenerato. Io ero iscritto al Pci di Berlinguer, oggi dire che Renzi è di sinistra è come dire che io sono un vescovo. Io ho avuto un papà liberale e conservatore alla Montanelli, non era ricco, perché mio nonno si era fatto fregare dall'amministratore, ma viveva i suoi privilegi con un senso di responsabilità. Grazie a lui ho potuto studiare in Svizzera e andare un'estate sì e una no in America».

Le mancano quei tempi?

«Non si vive di passato, ma che esperienza fu andare al festival dell'isola di Wight. Partimmo io e Alberto Camerini, lui a bordo di una Gilera 125, io a cavallo di una Guzzi 50 fatta a chopper. Ascoltammo il penultimo concerto di Jimi Hendrix, i primi passi di Emerson Lake & Palmer, Miles Davis elettrico. Eravamo così stravolti che facemmo i turni per dormire a seconda degli artisti sul palco: io dormii durante lo show dei Doors e Alberto durante quello degli Who che io amavo alla follia».

Ma lei è partito con l'opera e con la musica classica.

«Mia mamma era cantante d'opera e cominciai a esibirmi a 3 anni. A 9 incisi il 45 giri Palloncino rosso, a 10 una raccolta di carole natalizie per la comunità angloamericana milanese e l'anno dopo alcuni classici americani come Oh Susanna inseriti in un fascicolo per imparare l'inglese. Lo Stabat mater di Pergolesi è forse la cosa che mi emoziona di più anche oggi. Però l'estate andavo negli States e lì scoprii Satisfaction e il blues: una folgorazione. Sono duttile, faccio il cantautore, suono il rock ma sono anche uno dei pochi del nostro mondo ad avere avuto il nome in cartellone alla Scala, quando mi esibii con Carlo Boccadoro».

Una vita tra classica e rock insomma.

«Sì, anche se le mie avventure classiche finirono presto. A 13 anni, per l'esame di ammissione al Conservatorio mi diedero da eseguire Mikrokosmos di Béla Bartók. Con tutte quelle dissonanze e segni strani corressi lo spartito e lo suonai a modo mio davanti alla commissione. Diedero i numeri e mi buttarono fuori urlando, così andai immediatamente a comperare una chitarra elettrica rossa fiammante».

Che debutto!

«Già, ma continuai a coltivare la classica e intanto, grazie a Mara Maionchi, entrai alla Numero Uno di Mogol e Battisti. Però coltivai anche l'avanguardia, infatti ho dedicato molte serate alla musica di John Cage. Per esempio, sempre con Boccadoro, abbiamo eseguito la Lecture on Nothing».

Grande personaggio Cage, l'ha conosciuto?

«Sì, alla Cramps. Che personaggio eccezionale, per lui la musica più pura era il silenzio, infatti ha inciso 4.33 come elogio del silenzio e della musica dell'ambiente. Era un uomo bizzarro da cui c'era sempre da imparare. Un giorno eravamo in giro per Milano e Cage raccolse delle foglie, cominciò ad agitarle prima forte, poi piano, poi a varie velocità e disse: Questa è una mia composizione. Nel mio brano Oggi ho imparato a volare, il finale è inciso con il suo piano preparato, al quale abbiamo tolto i chiodi e tutti gli oggetti che Cage vi aveva inserito».

Sta scrivendo nuove canzoni?

«No, questo tour mi assorbe completamente, non so come verrebbero accolti i miei nuovi brani oggi.

Però collaboro molto con artisti giovanissimi della scena indipendente che mi chiedono di partecipare ai loro dischi, come gli Ex-Otago».

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