Cultura e Spettacoli

Calligarich fa un bel poker con «Quattro uomini in fuga»

Fabrizio Ottaviani

Chissà se una volpe può adattarsi a vivere nella tana di un lupo, un fringuello nel nido di un falco; di certo Gianfranco Calligarich ha saputo ricavarsi, all'interno della prediletta cornice avventurosa che rimanda ad Hemingway, lo spazio per un registro irriverente grazie a cui è diventato uno dei nostri migliori umoristi. Nato nel 2002 con Posta prioritaria, tornato ad ammiccare in quel racconto sconcertante e perfetto che è Principessa, l'umorismo di Calligarich è adesso conclamato: in Quattro uomini in fuga (Bompiani, pagg. 300, euro 18) seguiamo la vicenda di una banda di spiantati che trascorrono le serate in un bar di periferia. Paolo è il rampollo di un allevatore che regala Ferrari, ma lesina sulla benzina, Sauro uno schizzinoso pariolino padano tutto cachemire e mocassino ed Elio l'iracondo gestore di un negozio di mangimi. L'onere di narrare va a Casablanca, il cui nome da battaglia è una conseguenza della sua irrefrenabile cinefilia.

Per scampare alla noia, i quattro progettano di rapire il toro da monta vanto dell'azienda del padre di Paolo; visto anche il costo per grammo dello sperma dell'animale, che rasenta quello dell'uranio. Trafugato il toro, lo nascondono in una camera del locale albergo, limitandone i movimenti con due letti. Il sequestro ha vita breve: ricattati dal portiere, che li costringe a cedergli una dose del prezioso fluido della bestia, i quattro sono costretti a liberarla. Per colmo di sventura, il toro riparerà in un accampamento di nomadi che sapranno apprezzarne a dovere le potenzialità, anche se a modo loro.

Il romanzo non finisce qui, anzi è solo a questo punto che inizia: quando Paolo, per reagire al fallimento, decide di vendere la Ferrari e con il ricavato si trasferisce a Roma, tirandosi dietro gli inseparabili compari. Il nuovo progetto? Finanziare un teatro off situato dentro il fontanone del Gianicolo, sebbene l'esperienza drammatica della combriccola sia pari a zero.

Tra fiaschi clamorosi, inopinati successi e folgoranti apparizioni di magnati disposti a coprire d'oro gli sbalorditi attorucoli, il romanzo viaggia verso la catastrofica conclusione senza una caduta di tono, distribuendo intelligenza e buonumore a un popolo di lettori che troppo spesso, dimenticando i suoi Savinio e Pirandello, privilegia scioccamente le lacrime della tristezza su quelle del riso.

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