Cultura e Spettacoli

Capricciosa e collerica come può essere una voce unica al mondo

Un'artista che divideva le piazze, scandalizzava il pubblico ma sul palcoscenico era infallibile

Capricciosa e collerica come può essere una voce unica al mondo

La notorietà oggi di Maria Callas è altissima, si potrebbe verificarne il pH con la cartina tornasole. Nel suo caso la colorazione ottenuta sarebbe rossa, colore del sangue e indice di acidità. Tale fu in vita e in morte l'insistenza morbosa, quasi sadica, con cui si frugò nella vita privata della grande soprano greca. Sono passati quarant'anni dalla scomparsa di Maria Callas (16 settembre 1977) e quasi nulla è stato risparmiato: dalle ipotesi di induzione al suicidio alle presunte rapacità ereditarie, dalle metamorfosi bulimiche ai capricci sartoriali, dall'ironia sul matrimonio con un marito-padre (l'industriale veronese Giovanni Battista Meneghini) agli amori platonici per i pigmalioni (Visconti e Pasolini), dall'infelice relazione con l'uomo più ricco del suo mondo (Onassis) - con annessa maternità «negata» - ai sogni infranti di un «vero» ritorno alle scene. Anche i normali contrasti nelle «relazioni» lavorative diventavano casi travalicanti i confini patri, con il Paese diviso in fazioni contrastanti fra chi giurava sul capriccio e chi sull'indisposizione vocale. Così fu per il clamoroso abbandono dell'inaugurazione dell'Opera di Roma, dopo il primo atto di Norma, e così fu per il ritiro a una replica della Sonnambula al Festival di Edimburgo (contrattempo «felice» che diede la possibilità di rivelare la meravigliosa qualità della sostituta, Renata Scotto). C'era chi mestava nel torbido, alimentando le falangi partigiane: tra le protagoniste, la temuta regina madre del pettegolezzo mondano, Elsa Maxwell. Invece dell'isteria sarebbe bastato un pizzico d'ironia, come quella esibita dal direttore artistico dell'Opera di Roma, Guido Sampaoli, ad una replica della Medea di Cherubini. La Callas e il basso bulgaro Boris Christoff non volevano cedere la ribalta e vennero alle parole grosse (per non dire alle mani). Il sipario non si apriva e il pubblico plaudente, spazientito, domandava ragione. Sampaoli stemperò il tutto dicendo: «Oh! Nulla, i soliti Balcani: una piccola appendice della guerra greco-bulgara». Dopo gli episodi teatrali scattavano le inchieste giornalistiche sul «carattere atrabiliare» della Diva; e a macchia d'olio la febbre curiosa s'insinuava, e le ipotesi calunniose crescevano con ritmo rossiniano. L'attesa per una «prima» diventava nervosa, perché ogni volta c'era da dimostrare ai negatori il loro errore e confermare gli esiti precedenti. Sulla Scala dopo i fatti di Roma gravavano nubi minacciose, e si favoleggiò per il ritorno della Callas in Anna Bolena di Donizetti di atteggiamenti ostili all'interno del teatro. L'atmosfera era tesissima soprattutto fuori dal teatro: capannelli e fanatici se le diedero di santa ragione nonostante le camionette della polizia. Mio nonno Gianandrea, che in quei frangenti collaborava con la Callas, veniva interrogato senza pietà dal parrucchiere, dal sarto, dal fruttivendolo, al ristorante e per strada. Nel bailamme generale si rammaricava fosse oscurato il fatto decisivo, la «rivoluzione» che la Callas aveva portato nel melodramma. Non solo «quella serietà incrollabile il suo far sempre sul serio in ogni fase preparatoria» inficiato dai gazzettieri, ma quel «trovare il linguaggio vero ad una data opera e al personaggio un'autenticità musicale. Appunto la duplice operazione: guidata dalla tecnica che conosciamo, alimentata da quella voce interna soltanto sua». Ricordava la Callas, ombreggiata di tristezza, a cena nello storico ristorante «Biffi Scala». Malinconica e silenziosa «causa il nulla che c'era da dirsi, dopo la musica». Lavoravano alle repliche di uno spettacolo inaugurale scaligero dall'esito trionfale, Un ballo in maschera di Verdi. C'erano i soliti noti che avevano rilevato l'estraneità della Callas a certi aspetti della vocalità del personaggio. Rilievi marginali «davanti al tormento di Amelia, consumato, pudico, trattenuto, fiamma sotto dense ceneri», dato «con timbro perdutamente poetico», e comunicato, nell'aria della rinuncia del secondo atto, con il peso dell'ansia liberatasi nell'espressione lirica. Certi atteggiamenti spavaldi o divistici della Callas e dei suoi sostenitori vanno riferiti anche all'unicità del suo fatto artistico, essendo stata capace di cantare, nello spazio di pochi giorni, parti dalla vocalità opposta come Brunnhilde ed Elvira nei Puritani e Isotta e Norma. E questo grazie all'intuizione geniale del maestro Tullio Serafin, il quale, solo dopo aver sentito la Callas fare i vocalizzi all'Hotel Luna di Venezia, la scritturò seduta stante alla Fenice per sostituire l'indisposta belcantista Margherita Carosio. Pochi giorni per passare da Wagner a Bellini erano possibili solo a un fenomeno.

Nel momento del ricordo e della commemorazione ci sovviene (e lo abbiamo ricordato in una precedente rubrica sul Giornale) quello stupendo attacco del Don Carlo di Verdi, «Carlo il sommo imperatore non è più che muta polvere». Lo intonano i frati del convento di San Giusto davanti alla tomba dell'imperatore Carlo V. L'inevitabile transito dalla gloria alla polvere ribadisce quella che Leopardi chiamava l'infinità vanità del tutto, soprattutto per chi, come Maria Callas, è diventata culto vivo, passato dalla generazione di chi la vide e la ascoltò a chi ascolta soltanto gli ormai preziosissimi documenti sonori. Per la cronaca, ricordiamo che le sue ceneri furono disperse, fra non poche polemiche, nel mar Egeo.

Oggi i pellegrini e gli appassionati che si recano al cimitero parigino del Pere Lachaise per omaggiare le sue spoglie, trovano un cenotafio, o meglio, una piccola lapide in un colombario.

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