Cultura e Spettacoli

Caro Lucio ti scrivo Il poeta controcorrente innamorato del futuro

Caro Lucio ti scrivo Il poeta controcorrente  innamorato del futuro

Forse sì, forse avrebbe accettato anche lui di andarsene così in una mattina di sole imprevisto, quasi per scherzo tre giorni prima del compleanno, e proprio a Montreux tempio del jazz, il suo jazz vitale. Ciao Lucio. Sembrava nato nel futuro, ecco perché non è mai rimasto incatenato al proprio passato. Era, senza giri di parole, il più grande dei cantautori proprio perché non si era fermato soltanto lì, a cantar parole e poi a guardarle invecchiare. Le aveva vestite a modo suo, abbinando arrangiamenti e frasi musicali, crescendo, saltellando, zigzagando, persino sbagliando con la grazia scombinata che soltanto il talento ti può dare e nessuno può spiegare: c’è e basta. Aveva fulminato Pupi Avati, e si sa, troppo bravo per lui al clarinetto in quel mare infinito che è il jazz. Ma aveva spiazzato anche Gino Paoli, uno che vede sempre oltre, quando nel 1963 lo incrociò al Cantagiro con i Flippers che accompagnavano i Watussi di Edoardo Vianello.

Ma che ci fa questo genietto alle prese con un tormentone da quattro soldi, forse cinque: vieni con me, dai, e facciamo musica insieme. Lucio Dalla, oddio il Lucio Dalla senza confini, è nato lì, in quell’estate di risacca, scrivendo a quattro mani la bruttarella Lei (non è per me) ma usando una voce sola, la sua, così piena di spigoli, lui piccolino e rotondo, immune dalla metrica. La voce era il suo specchio, il vero imbuto che ci portava tutti in fondo al suo animo. La cambiava, magari la piegava persino al napoletano come in Caruso, la mortificava pure, o anche la esaltava lampeggiando quel disperato erotico stomp che gli ha sempre agitato la creatività, ostinatamente solitaria anche quand’era condivisa. Con chi, lo sanno tutti: il poeta Roberto Roversi, fuoco e fiamme proprio su quel disco Automobili del 1976, altissimo e bassissimo, con un titolo che era quasi uno sghignazzo autobiografico visto che a Dalla i macchinoni piacevano assai, e aveva pure una Porsche Carrera.

Poi Morandi, Ron e De Gregori, picco insuperato, visto che Ma come fanno i marinai e il tour Banana Repubblic ha celebrato la fine degli anni Settanta avvitandosi al nostro linguaggio, entrandoci dentro come riescono a fare solo i poeti o i grandi giullari o tutti e due. Lucio Dalla in fondo avrebbe preferito essere chiamato giullare e basta. E si è visto anche nella sua ultima apparizione in tv, proprio al Festival di Sanremo che quarant’anni fa gli aveva pure tagliuzzato l’immensa 4 marzo 1943 con quel violino forsennato che racconta, così pungente così malinconico, quello che siamo stati e quello che inevitabilmente saremo, i nostri 8 settembre o i nostri Mundial, la briscola al bar o il tinello di casa o, per dirla tutta, il talento di sopravvivere anche quando l’acqua è così alta e di salvagenti neppure l’ombra.

Se gli telefonassimo tra vent’anni, Dalla farebbe quello che gli è sempre venuto meglio: sorprendere. Qualche volta, tante per la verità, è stato superlativo piegando alla poesia autentici scioglilingua come Balla balla ballerino oppure fregandosene, con la disinvolta Attenti al lupo, degli intellettualoni che volevano soltanto la roba alta (Sergio Saviane scrisse di Disperato erotico stomp che «siamo arrivati al populismo della masturbazione bolognese», proprio così) o ancora registrando dischi nobili come Henna, così nobili che proprio gli intellettualoni non riuscirono a capirlo. Altre volte si è perso per strada o non gli è importato di sceglierne una precisa: con Tosca, ad esempio, è andato ben oltre la musica leggera ma si è fermato ben prima della standing ovation.

E chissenefrega: l’avete mai visto uno che dal jazz freddo è passato per i Watussi arrivando a interpretare Vivaldi, a occuparsi della musica volatile della soap opera Sottocasa e infine chiudendo in un titolo il suo mezzo secolo di carriera: Questo è amore. È il titolo del suo ultimo disco, e dai diciamo che con tre parole si spiega tutto. Amore per la musica. Per l’uomo. Amore per l’amore, e pazienza se c’era sempre qualcuno che capiva male.

Sarà per questo che oggi, godendosi da lassù tutte le paginate, le interviste, le lenzuolate video di giornali e tv, Lucio Dalla avrà lo stesso sorriso disincantato che aveva dieci giorni fa nella buca dell’Ariston mentre dirigeva Nanì di Pierdavide Carone: visto, vi ho sorpreso anche stavolta, aspettavate che diventassi un vecchiaccio bollito e invece me ne sono andato come fanno i marinai senza dirvi neppure la rotta, aspettando una mattina che diventasse grande così un sole imprevisto.

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