Cultura e Spettacoli

Caterini svela la nuova via del «perdono» di Dostoevskij

In una notte di tempesta, un uomo che ha deciso di uccidersi corre lungo le strade zuppe di pioggia. Una bambina gli si avvicina, è disperata, di certo una tragedia sta per abbattersi sulla madre. L'uomo non l'aiuta, anzi le urla qualcosa per allontanarla, poi rincasa e si siede su una poltrona, accanto al tavolino sul quale attende la pistola carica. D'un tratto l'uomo crolla addormentato, e sogna. Sogna di essere trasportato da un angelo su un pianeta remoto, una Terra gemella in cui il male è stato bandito, la scienza è solo un ferro vecchio e gli uomini hanno smesso di sopraffarsi. Siamo fra le pagine del Sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij (Janieri edizioni, 139 pagg., 10 euro, commento di Andrea Caterini). Cosa sia questo racconto non è facile da stabilire: viaggio sulla Luna di Luciano o di Cyrano, parabola oscurantista e utopia da figli dei fiori, il Sogno evoca in primo luogo il mito regressivo, ambiguo e inestirpabile dell'Età dell'oro, dell'Eden. Andrea Caterini, romanziere, critico letterario e collaboratore del Giornale offre al lettore un'introduzione al racconto che di fatto è una monografia sul grande russo; poi, nell'ampio commento, dipana i nodi del testo, getta luce sui passi che rischiano di essere fraintesi, coinvolge Agostino, Kierkegaard e Barth per ricostruire il senso di una storia che prima di essere un viaggio fantastico è una proposta esistenziale, dimostrando testi alla mano che essa è perfettamente incardinata ai grandi romanzi, dall'Idiota ai Fratelli Karamazov. L'Eden, per Caterini, non è un evento da accettare ad occhi chiusi, che esclude chiunque non sia disposto a credere nell'indimostrabile. È, piuttosto, l'altro nome del perdono, «il nostro solo possibile Paradiso», purché si veda nel perdonare un «patto fra vittima e carnefice». Non c'è niente di più intensamente dostoeskiano di questo patto; inoltre si tratta di un'interpretazione che ha il pregio di strappare lo scrittore al suo dogmatismo. Narrano i biografi che durante un compito in classe, quando era un allievo della scuola militare, il giovane Dostoevskij disegnò una fortezza dimenticandosi delle porte.

Lasciamoci sugestionare dall'analogia: l'impressione è che in questo commento, pur senza intaccare il cristianesimo del grande russo, Caterini voglia tracciare la via d'uscita che Dostoevskij ha dimenticato di disegnare, e renderlo disponibile anche a chi non crede.

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