Cultura e Spettacoli

"C'era una volta la sinistra..." (ma perché dovrebbe esserci ancora?)

Occhetto, Bertinotti, D'Alema e Bersani di fronte alla vittoria del capitalismo

"C'era una volta la sinistra..." (ma perché dovrebbe esserci ancora?)

Un'emblematica rappresentazione della crisi della sinistra italiana ci è offerta in questi giorni dalla pubblicazione di una quadruplice intervista fatta ad alcuni dei suoi esponenti maggiori: C'era una volta la sinistra. Errori, rimpianti e speranze nei racconti di Occhetto, Bertinotti, D'Alema e Bersani (Paper First, pagg. 141, euro 12, a cura di Antonio Padellaro e Silvia Truzzi). Da questi racconti si constata come la sinistra italiana sia tutta concentrata a dibattere sui temi della sua immediata identità politica, piuttosto che affrontare la vera causa della sua crisi, cioè la sconfitta dell'idea comunista e ciò che essa ha significato in termini di mutamento storico. La vittoria irreversibile del capitalismo sul comunismo, infatti, investe tutta la sinistra mondiale, dai socialdemocratici ai no-global.

Complessivamente da queste interviste siamo invece informati sui retroscena delle lotte per il potere che hanno coinvolto Occhetto, Bertinotti, D'Alema e Bersani negli ultimi trent'anni. Si tratta del travaglio di comunisti, diventati più o meno ex, generato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla dissoluzione dell'Urss. Di qui, a cascata, la sequenza di eventi che hanno portato alla fine del Pci: svolta della Bolognina, congressi di Bologna (1990) e di Rimini (1991), nascita del Pds, scissione di Rifondazione Comunista, successione dei vari segretari del partito. Da questi eventi prende avvio la crisi politica e ideologica della sinistra, coincidente con la fine della prima repubblica, scandita dai confronti-scontri con le forze avverse nelle varie elezioni politiche e dai conseguenti governi. Un processo generale che ha provocato la progressiva perdita della sua identità ideale, fino al suo esito neoliberale - si fa per dire - espresso con la leadership di Matteo Renzi.

Da queste interviste nulla ricaviamo su che cosa è e soprattutto che cosa dovrebbe essere la sinistra, cioè quale società abbia in mente di perseguire, se non la generica idea di difendere gli interessi delle classi popolari. Ed è, questa, la conferma che tale insipienza ideativa riflette perfettamente il contraccolpo della portata epocale della sconfitta comunista, la quale ha dimostrato che i principî dell'anticapitalismo non hanno retto alla prova. Il fallimento dell'Urss è stato seguito infatti dal fallimento della Cina, di Cuba, e così via: ovunque l'abolizione della proprietà privata e del mercato ha generato sempre il medesimo risultato, vale a dire il dispotismo e la miseria. A questo punto, alla sinistra - italiana come mondiale - quale modello di società rimane? Perché, insomma, essa dovrebbe avversare il capitalismo?

Sebbene tutti gli intervistati si siano pronunciati, sia pure con modalità diverse, a favore del riformismo, è evidente che in essi persiste una riserva psicologica di tipo evocativo e purista: sì, certo, siamo riformisti, ma ciò non significa dover rinunciare ai nostri ideali di sinistra e alla nostra anima autentica. Ma una franca accettazione della scelta socialdemocratica dovrebbe portarli a riconoscere che essi non dicono nulla di nuovo e di originale e che, a ritroso, con prospettiva storica, fatte le ovvie e debite differenze, avevano ragione Bernstein e non Lenin, Turati e non Gramsci, Saragat e non Togliatti, Craxi e non Berlinguer. Riconoscimento, questo, che essi non saranno mai disposti a fare.

In conclusione, va detto che nell'ultimo secolo abbiamo conosciuto regimi politici a struttura capitalistica senza liberal-democrazia, ma non abbiamo conosciuto alcun regime liberal-democratico senza una base socio-economica capitalistica. Vale dunque quanto sosteneva il leader del Partito socialdemocratico svedese, Olof Palme, secondo il quale il capitalismo è una pecora che ogni tanto va tosata con un'equa tassazione.

Il che significa però riconoscere che la sinistra può solo avere un ruolo storicamente subalterno, essendo un soggetto politico e sociale inadatto a produrre ricchezza e a generale benessere.

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