Cultura e Spettacoli

"Che brutto mondo. Meglio osservarlo dalla cima di un tetto"

Il regista è anche protagonista della commedia «Il grande spirito» in coppia con Rocco Papaleo

"Che brutto mondo. Meglio osservarlo dalla cima di un tetto"

Si ride e si scherza quando si incontrano due mattatori come Sergio Rubini e Rocco Papaleo, ancora insieme, in un film, dopo il recente Moschettieri del re che - ci rivela Rubini - avrà un sequel. Anche se Il grande spirito, la nuova commedia agrodolce, diretta e interpretata da Sergio Rubini e presentata oggi al Bari International Film Festival e da giovedì prossimo in più di duecento schermi, lascia spesso l'amaro in bocca. Perché nella leggerezza della metafora del personaggio interpretato da Rocco Papaleo, che vive in un terrazzo in cima a un palazzo di Taranto, convinto di essere Cervo Nero della tribù dei pellerossa Sioux, c'è tutta la pesantezza della ben visibile fabbrica dell'Ilva che sputa i suoi rossi veleni. Così quando il rapinatore Tonino (Sergio Rubini), scappando dai suoi «amici» a cui ha a sua volta rubato il malloppo, incappa in Renato e con lui trascorre molte giornate, costretto a restare sul terrazzo per non farsi trovare, inizia a vedere, da lassù, il mondo di sotto in un modo differente: «Il mio personaggio - spiega Rocco Papaleo - ha un punto di vista bambino, da sciamano spirituale, e quello che vede, il mostro della fabbrica così come l'inquietudine a livello del suolo, lo colpisce in tal modo che non esce mai di casa». «Anche perché - aggiunge il regista - lui ha anche paura di fare la fine del padre, che tornava a casa sporco di rosso, ha paura che scendendo si avveleni».

A proposito, Rubini, che mondo si vede dai terrazzi di una città come Taranto?

«Dai tetti quell'obbrobrio incombe su tutto. Lo sa che Taranto è la città con la maggiore incidenza di morti sul lavoro? Per raccontare questo grande problema ho quindi immaginato un film con la metafora che tutti i tarantini sono degli indiani. Ma in una riserva in cui non ci sono più - ma c'erano - laghi, boschi e praterie. Ora ci sono i wind-day, con la polvere rossa portata dal vento».

Il film verrà proiettato lì?

«Sì certo, il 7 maggio, e spero che ci sia una sensibilizzazione al problema dato che la scorsa settimana mezzo governo è andato a Taranto ma ha eluso le domande».

Come è nato l'eccentrico personaggio di Papaleo?

«Sono partito dall'idea di una sorta di barone rampante, un indiano metropolitano, che pensa che il mostro sia opera degli yankee. Per contrasto ho pensato al personaggio che interpreto che del cielo, delle rondini e della metafisica non sa nulla. Insomma un topastro delle fogne. I due personaggi, incontrandosi, diventano buffi insieme e si aiutano a vedere il mondo da un'altra prospettiva».

Il film a tratti è parlato in dialetto.

«Volevo raccontare degli ultimi che lo fossero veramente e quindi la lingua doveva essere vera, di quello strato della società. Una lingua fondamentale per restituire i suoni».

Che pubblico immagina per il suo film?

«Spettatori, anche giovani, che vadano alla ricerca di qualcosa di diverso. Di film che indicano ancora una strada senza finali sospesi, che sono vili».

Come quelli delle serie tv?

«Esatto. Le serie non finiscono ma rimandano sempre alla stagione successiva. Il cinema invece consente ancora di raccontare una storia compiuta che in due ore dà un senso. Ancora meglio se finisce, come cerco di fare io e come mi diceva Fellini sul set del film che abbiamo girato insieme (Intervista, ndr), con una luce, un raggio di sole che alla fine riesce a brillare».

A proposito del sole, il suo è uno dei pochissimi film italiani di richiamo che usciranno in questa estate cinematografica sostenuta dalla campagna «Movie-Ment» per portare il pubblico in sala tutto l'anno. È contento?

«Vorrei essere sincero ma non posso. Io spero che loro abbiano ragione però temo che sia come se uno facesse una campagna per aprire dei pub all'aperto in autunno a Londra. Ma l'ottobrata londinese non esiste, quella romana sì. È un problema, non solo culturale, ma anche geografico».

Dunque non c'è soluzione?

«Dobbiamo avere cura del cinema italiano. Quando ero ragazzino c'era un cinema che indicava una via, c'era Fellini, ora facciamo tanti, troppi, remake. Ma se vincono coloro che sperano di allungare l'estate cinematografica sarebbe fantastico, diversamente meglio concentrarsi nei pochi mesi in cui la gente va al cinema».

Sembra una guerra...

«Facciamo questa guerra, ok, ma quando lo dicono i generali, di solito i primi avamposti sono già caduti».

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