Cultura e Spettacoli

«Che sfida portare in scena un Verdi così scespiriano»

«Che sfida portare in scena un Verdi così scespiriano»

Riccardo Muti definisce Simòn Boccanegra di Giuseppe Verdi, l'opera con cui inaugura stasera la stagione 2012 - '13 del Teatro dell'Opera di Roma, un capolavoro singolare. Il maestro Muti, dopo aver diretto tutte le maggiori opere di Verdi, affronta per la prima volta quest'opera unica, all'inizio delle celebrazioni per il bicentenario della nascita dell'autore. «Ho sempre ritenuto -ci dice- che per affrontare Simòn Boccanegra, opera che appartiene a due periodi diversi - 1857, prima versione, 1881, la seconda - fosse necessario conoscere e approfondire i fermenti del primo e le sottigliezze dell'ultimo Verdi. Era giusto arrivare al Simone dopo aver diretto Otello, che segue il secondo Simone di sei anni e dopo la “Trilogia” popolare (Rigoletto, Traviata, Trovatore) che precede il primo di quattro. Bisogna dirigerlo avendo presente tutto l'arco creativo».
Quando Verdi ripensa un'opera, quasi sempre elimina i difetti e valorizza i pregi, rivelando una particolare tinta ...
«Ho studiato la prima versione che contiene anche musica, come il ballo dei corsari africani, che non è fra le pagine più straordinarie di Verdi - lo dice uno che ama tutto di Verdi, anche quello che potrebbe sembrare non il migliore. Verdi scrivendo di aver “raddrizzato” le gambe al vecchio Simone aveva pienamente colto nel segno. In molti punti la prima versione è diseguale, zoppicante. Nel 1881 Verdi con l'apporto di Arrigo Boito, opera un'autentica ricreazione, con inserimenti ex-novo sublimi, penso alla scena del Consiglio nel Palazzo degli Abati. Anche gli elementi tematici e melodici originari vengono legati a situazioni drammatiche diverse».
Eliminazioni, aggiunte rivelatrici, rendono singolare una vicenda austera.
«È strano che nel Simone, pur essendo un'opera piena di melodia - penso all'aria sognante di Amelia o a quella fremente di Adorno - rimangono impressi molto di più gli stupendi dialoghi, perché l'andamento è quello di una tragedia in musica piuttosto che di un melodramma. È simile a Rigoletto, concepito come un susseguirsi di duetti, terzetti, quartetti, pezzi concertati. La versione definitiva assume spessore shakespeariano - pur non venendo da Shakespeare, ma da un dramma dello stesso autore del Trovatore, Antonio Garcìa Gutierrez».
Proprio nel 1856-'57 il poeta Antonio Somma aveva approntato a Verdi il libretto per Re Lear. Forse il segreto della statura del doge Boccanegra è di aver assorbito la solitudine e il tristissimo amor paterno di Lear.
«Verdi scolpisce, “shakespirianizza” tutti i dialoghi. Per questa ragione ho voluto i sopratitoli, affinché il pubblico cogliesse la parola nel momento stesso in cui viene vitalizzata dalla musica e per rendere ancora più chiaro il percorso drammatico di una vicenda complicata. Il perfido Paolo Albiani è uno studio del futuro Jago. Con Boccanegra, Fiesco e Adorno compone un quartetto di voci scure che da il colore cupo a tutta l'opera. È un'opera dove l'elemento femminile - importante dal punto di vista vocale - viene inghiottito nel grande affresco morale e civile dell'opera».
Un lasso di tempo di 25 anni corre fra il prologo e i tre atti seguenti, quanti passarono fra la prima e la seconda versione, con benefici a partire dallo strumentale.
«La strumentazione di Verdi è raffinata, spesso quasi cameristica... Tutta la scena del Gran Consiglio è un capolavoro d'effetti, di pianissimi, di contrasti. E ovunque sottigliezze strumentali, come l'impiego nell'anatema collettivo prima del clarinetto basso e poi del fagotto. Verdi vuole due colori differenti, uno scuro, misterioso; l'altro più pungente».
Onnipresente il mare.
«Il mare è l'elemento connettivo di tutta l'opera, fin dall'avvio, che parte come un moto misterioso di onde. Il tempo giusto si trova nelle prime parole (“Che dicesti?”), nel dialogo fra Paolo e Pietro, i plebei che complottano per eleggere il corsaro Simone alla più alta carica della Repubblica, il dogato. Il mare si insinua in molte pagine come nel meraviglioso abbandono finale, quando Simone è sopraffatto dal suo ricordo. Sono convinto che dentro vibri qualcosa di autobiografico. Non è la meraviglia del corsaro, piuttosto lo stupore di un uomo come Verdi che veniva dalla pianura padana e a un certo punto vede il mare.

Nell'orchestra si sente l'increspatura: gli archi tremolano e la luna distende sul mare un filo d'argento, come dirà il poeta Salvatore Di Giacomo».

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