Cultura e Spettacoli

Ci sono altri "Mostri" per il cinema italiano: sono quelli (inediti) di Valerio Zurlini

L'autore inviò al Premio Riccione il soggetto di un dramma. Caduto nell'oblio

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Davide Brullo

Stava lavorando all'adattamento di un romanzo di Vasco Pratolini, Lo scialo. L'ultimo lavoro. Quello che avrebbe chiuso il cerchio. Il primo lungometraggio, prodotto dalla Lux nel 1954, era tratto da un altro romanzo di Pratolini, Le ragazze di San Frediano. Novembre 1981: la rivista francese Cinématographe contatta Valerio Zurlini. Il grande regista detta un requiem del cinema italiano, reo «di essersi venduto» agli americani, di mettere in scena affari poco interessanti («noi italiani parliamo una lingua che non interessa nessuno, anche le nostre problematiche sono poco interessanti... siamo conosciuti per i nostri difetti atavici e non per le nostre qualità»), di essere arzigogolato e noioso («i film di Nanni Moretti... non riesco a capirli»). Sintesi: «gli italiani sono imbecilli». Durante il fascismo andava meglio, «e sapete perché? Perché Giuseppe Bottai, il ministro fascista della cultura, era più intelligente di quelli che ci governano oggi. Anche Alessandro Pavolini, ministro della Cultura popolare, capo del fascismo repubblicano, che venne fucilato insieme a Mussolini, era un uomo di cultura raffinata e consentì a Luchino Visconti di girare Ossessione».

A parlare è un regista roso dall'amarezza e dalla solitudine, che morirà di lì a poco, il 26 ottobre del 1982, 35 anni fa, e che ha firmato l'ultimo film importante nel 1976, Il deserto dei Tartari. Quarant'anni prima di quella livida intervista, nel 1951, Zurlini girava i primi corti e si dava al teatro. Scrittore smaliziato, Zurlini, venticinquenne, spedisce al Premio Riccione un testo buttato giù insieme a Lucio Chiavarelli. Il Premio Riccione era noto per pagare bene e per beccare i giovani talenti. Zurlini griffa la pièce come Storia senza titolo. Il motto è più esplicito: I mostri. Il testo è un dramma da camera, ambientato in «un salotto borghese, dai colori morti» dove si consuma, con violenza esistenzialista, il disfacimento di una famiglia. I mostri cui si riferisce il titolo sono i figli, affetti da una deformità-disabilità inspiegata, di Ida e Giorgio, chiusi a chiave in una stanza di casa, invisibile. La mostruosità della prigionia familiare, degli affetti frustrati, è il tema che agita nel sottosuolo il testo. A tutto ciò si ribella Barbara, la figlia sana, agita da un insano desiderio di fuga e di sesso, che vuole bruciare ogni cosa e che obbliga gli amanti a un rito perverso: se la vogliono, se vogliono godere di lei, prima devono aprire la stanza dove stanno i mostri e vincere l'orrore che si prova a vederli.

Naturalmente, nessuno sa superare l'enigmatico terrore prodotto dai mostri. Il testo, dal fascino plumbeo e plebeo, violento, è molto più bello ora di quanto apparve allora. Sergio Pugliese, già segretario del Partito Nazionale Fascista di Ivrea, poi brillante dirigente in Rai, lo giudicò «abbastanza interessante», ma la giuria del Premio Riccione, in cui figuravano, tra gli altri, Lorenzo Ruggi, Raul Radice, Vito Pandolfi, lo scartò. Quella edizione del Premio baciò Tullio Pinelli, già noto autore per Pietro Germi e Federico Fellini, con Gorgonio; tra i segnalati spicca il nome di Enzo Biagi, che tentò la via della drammaturgia prima di diventare un giornalista. Il testo di Zurlini, così, fu trapiantato nell'oblio. Il regista, tuttavia, continuò a frequentare Riccione e Rimini, innamorato della torbida malinconia del mare d'inverno - la leggenda racconta che si giocava tanto, troppo in epiche partite a carte - dove ambientò i suoi film più celebri, Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961), La prima notte di quiete (1972).

In concomitanza con l'edizione numero 54 del Premio Riccione, che è l'edizione dei primi 70 anni (la serata di gala accade oggi, a Riccione, alla presenza di una folta giuria presieduta da Fausto Paravidino con, tra gli altri, Giuseppe Battiston, Emma Dante, Arturo Cirillo e Christian Raimo), la bella scoperta, fatta setacciando i fausti archivi del più antico premio di drammaturgia d'Italia.

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