Cultura e Spettacoli

Com'è borghese e noiosa l'arte "rivoluzionaria"

A Roma la prima rassegna sul Sessantotto: opere eleganti e senza eccessi. Adatte a una sinistra al potere

Com'è borghese e noiosa l'arte "rivoluzionaria"

Ma quale rivoluzione! A mezzo secolo di distanza l'arte del Sessantotto si rivela per ciò che è sempre stata: salottiera, elegante, formale fino a sfiorare l'accademismo. Di tutta quell'ondata innovativa e trasgressiva che cinquant'anni fa travolse altri linguaggi espressivi, la musica, il cinema, il teatro sperimentale, nell'arte visiva non c'è traccia. Almeno è ciò che emerge visitando la prima delle tante mostre annunciate sull'argomento, in anticipo sulla ricorrenza effettiva ma oggi è meglio giocare d'anticipo che arrivare in ritardo.

Il luogo, peraltro, è simbolico: la Galleria Nazionale di Roma. La scalinata di Valle Giulia nel marzo '68 fu scenario di uno dei primi violenti scontri, a inaugurare il decennio dell'instabilità, della crisi sociale e del terrorismo. Ecco, se qualcuno si fosse aspettato di trovare all'interno della mostra È solo un inizio. 1968 tracce di quella stagione così forte e contraddittoria, allora resterà deluso. La «prima» mostra sul Sessantotto - fino al 14 gennaio, curata da Ester Coen ma perfettamente adattata all'idea di museo secondo la direttrice Cristiana Collu - è concentrata nel grande salone d'ingresso della Galleria che, con il nuovo allestimento, favorisce lo spirito dell'accoglienza del pubblico e la fruibilità delle opere. Sarà l'eleganza degli arredi, la pulizia dello spazio, ma le opere realizzate in Italia attorno al '68 si uniformano al gusto borghese che di rivoluzionario non ha nulla. Anzi, il successo crescente dell'Arte Povera suona davvero come la metafora di ciò che è accaduto anche altrove. Una strategia militare passata attraverso l'occupazione di tutti gli spazi, la riduzione ai minimi termini del «nemico» (ovvero chiunque, artisticamente, si esprimesse in modo diverso), l'ascesa progressiva sul mercato. Da pseudo-attivisti prepotenti si sono così trasformati in arroganti affaristi, con opere svuotate di senso eppure strategicamente efficaci.

Però sono bravi e come tutti gli italiani eleganti e raffinati. Nel salotto della Galleria Nazionale questi lavori stanno divinamente e giocano il ruolo di complemento d'arredo. Rabbia? Rivolta? Rivoluzione? Non scherziamo, che tutto ciò resta confinato nelle intenzioni e nei proclami da corteo. E così tra un Kounellis e un Anselmo, tra i coniugi Merz e Pistoletto, tra una delle prime Mappe di Boetti e gli ultimi Bachi da setola di Pascali, scomparso in moto all'alba del '68, passa il meglio dell'arte italiana che da mezzo secolo alimenta il gusto borghese, di sinistra e senza eccessi, o meglio di quella sinistra capace di esprimersi attraverso la conquista e la gestione del potere. Una mostra senza neppure la gioia del 68 - nonostante l'esplosione rossa della Festa cinese di Mario Schifano - e filologicamente niente affatto precisa, avendo incluso opere di artisti stranieri degli anni '70 come lo Stone Circle di Richard Long del '76 (ma che c'entra?).

Di tutt'altro clima si annuncia invece Arte ribelle 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto che apre dopodomani alla Galleria del Credito valtellinese di Milano (fino al 9 dicembre) e curata da Marco Meneguzzo. A cui interessa piuttosto evidenziare gli spunti che il movimentismo spontaneo, disorganizzato, arruffone ma altrettanto creativo e sperimentale riuscì a trasferire nel mondo delle arti visive contrapposto all'atteggiamento elitario così trionfante nella mostra di Roma. Debordante negli anni '70, questa versione dello spirito sessantottino ha il pregio di anticipare la mentalità postmoderna nella mescolanza tra alto e basso. Come avrebbe potuto un'arte così altezzosa e distante rappresentare i tempi che stavano cambiando? Da qui la scelta, per una volta, di superare l'Arte Povera e rivolgere l'attenzione a quelle forme che usavano lo stesso linguaggio della comunicazione politica e movimentista. Se la grafica è uno strumento propagandistico efficace, lo è altrettanto se si parla di segno e stile, con una pluralità di motivi che intercettano le fanzine in stile dadaista, la psichedelia con Re Nudo e i disegni di Matteo Guarnaccia, oppure visualizzano il forte impulso di liberazione sessuale, nell'illustrazione di copertina per Porci con le ali affidata al pittore Pablo Echaurren.

Una fantasia visiva finalmente plurale che include diverse forme espressive per artisti prevalentemente attivi tra Roma e Milano: dal rapporto con la letteratura d'avanguardia (Nanni Balestrini) alla poesia visiva (Gianni Emilio Simonetti), dalla scultura pop di Mario Ceroli alla fotografia concettuale di Franco Vaccari, dall'architettura radicale di Gianni Pettena alla propaganda leninista di Fernando De Filippi.

Altre ne verranno - alla Fabbrica del Vapore di Milano aprirà a dicembre Revolution, incentrata sulla musica - e intanto da queste prime due mostre sul Sessantotto ci portiamo via un terzetto di intuizioni. L'Arte Povera, come buona parte delle espressioni della sinistra ufficiale è pomposa, arrogante e noiosa. Lo spirito movimentista, al netto dell'ideologia, è invece vitale e divertente. E infine che, gira o rigira, la prospettiva politica resta unilaterale.

Se qualcuno ha voglia di parlare di un «altro» Sessantotto, per favore batta un colpo.

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