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De Felice dimostrò che il fascismo fu solo un totalitarismo a metà

Lo studioso investigò la genesi e lo sviluppo del Regime e ne mise in luce tutte le differenze rispetto al nazismo

De Felice dimostrò che il fascismo fu solo un totalitarismo a metà

Gli «anni del consenso» quelli che Renzo De Felice fece coincidere con il periodo compreso tra il 1929 e il 1936, tra la Conciliazione e la guerra d'Etiopia segnarono il momento di più elevato livello di adesione del Paese al regime e di maggiore riconoscimento internazionale del fascismo. Si è detto che essi abbiano anche rappresentato la premessa per avviare un processo di trasformazione interna che avrebbe dovuto concludersi nella creazione di uno Stato totalitario. In verità la vicenda etiopica aveva, certamente, contribuito ad accelerare un processo di «totalitarizzazione» del regime fascista, che, peraltro, non sarebbe mai giunto a piena conclusione. Il fascismo, infatti, non approdò mai ai lidi di un regime totalitario vero e proprio. Ciò anche se esso, man mano che passavano gli anni, fece registrare una sempre maggiore concentrazione del potere nello Stato, un rafforzamento dell'esecutivo, un massiccio controllo della vita individuale e una sempre più ampia «politicizzazione» della società civile sin quasi a giungere, come ha osservato De Felice, «alla eliminazione della distinzione tra Stato e società civile». Tuttavia questo processo andò sviluppandosi, per usare ancora le parole di De Felice, lungo «una prospettiva che poco o nulla aveva a che fare con quella del nazismo o con quella dello stalinismo».

È incontestabile che il regime fascista, anche nel periodo della sua maggiore fortuna e del suo maggiore consenso, non abbia corrisposto mai appieno alle caratteristiche proprie dei regimi di tipo totalitario classico. La presenza, per esempio, della Chiesa con le sue organizzazioni capillarmente diffuse sul territorio nazionale, e il peso della Monarchia cui guardavano diversi settori dell'apparato pubblico e amministrativo del Paese furono, certamente, elementi che operarono da contrappeso alla tendenza verso la «totalitarizzazione». In particolare non fu possibile realizzare quella identificazione fra «partito» e «Stato» che pur insieme ad altri fattori come il «terrore» e la creazione di un «universo concentrazionario» rappresenta una caratteristica irrinunciabile per l'individuazione dei regimi totalitari. Proprio su questo punto, nel corso dei suoi volumi De Felice, anzi, ebbe modo di sottolineare come Mussolini, una volta giunto al potere e consolidatosi, avesse cercato di imbrigliare il partito nazionale fascista subordinandolo allo Stato e riducendone le funzioni più a livello burocratico e propagandistico-politico.

Sulla natura non totalitaria del regime fascista, De Felice tornò più volte. Lo fece, per esempio, ricordando la tesi sviluppata da una attenta studiosa del totalitarismo, Hannah Arendt, secondo la quale il fascismo sarebbe stato solo «una comune dittatura nazionalista» frutto delle difficoltà e delle patologie di una «democrazia multipartitica». Non era stato mai convinto, De Felice, da quei discorsi interpretativi che collegavano il «fenomeno fascista» in generale al di là, cioè, del caso italiano a manifestazioni di totalitarismo e che, elaborati soprattutto da sociologi e politologi, avevano cominciato a diffondersi in piena Guerra fredda. In realtà, De Felice non aderì mai all'idea sostenuta soprattutto da studiosi che non erano «storici puri», ma che, pur attraverso percorsi intellettuali suggestivi, si rifacevano alla metodologia delle scienze sociali della possibilità di elaborare una «concettualizzazione» del fascismo, un suo elevamento a categoria ovvero a modello storiografico o politologico, a «fenomeno» insomma, senza alcun riferimento a concreti dati storici, temporali, geografici. Tutte queste analisi, pur suggestive, gli sembravano astratte e fuorvianti perché tendevano a inserire in una stessa categoria fenomeni diversi. Mentre la Germania di Hitler e la Russia di Stalin erano governate da regimi totalitari puri, in Italia il fascismo si presentò, piuttosto, con i connotati tipici di un regime autoritario classico capace, però, di utilizzare gli strumenti messi a disposizione da una nuova realtà sociale caratterizzata, dopo la Grande Guerra, dall'ingresso delle masse nella vita politica.

Che il fascismo, insomma, non sia stato mai un regime totalitario nel senso pieno della parola era, per De Felice, un dato di fatto. Eppure, nell'ultimo scorcio degli anni trenta, una «svolta totalitaria» venne impostata e portata avanti al punto che lo storico poté intitolare proprio Lo Stato totalitario il quinto volume della sua opera relativo al quadriennio 1936-1940. De Felice ricollegò questa svolta a motivazioni di natura politica, in particolare all'esigenza di stabilizzazione del regime e alla ricerca di un nuovo equilibrio capace di depotenziare le spinte centrifughe dovute a quanto rimaneva della classe dirigente e degli istituti prefascisti. Lo spostamento dell'asse della «diarchia» in modo tale che il peso gravasse più sulla componente fascista e altri fattori come, per esempio, l'esautoramento di fatto del Gran Consiglio del fascismo erano atti certamente funzionali a un processo di «totalitarizzazione» che avrebbe dovuto mettere il regime nella condizione migliore per affrontare e risolvere sia il problema della monarchia sia quello della permanenza del regime stesso nel tempo al di là della vita del duce. La «tentazione totalitaria» o, se si preferisce, la «svolta totalitaria» del fascismo non era affatto un esito obbligato, ma rispondeva piuttosto a una logica di sopravvivenza del regime. Non è un caso che, proprio in quegli anni, si sviluppasse, tanto a livello accademico quanto a livello giornalistico, un ampio e vivace dibattito sulle caratteristiche e sulla natura dello Stato fascista che coinvolse giuristi, storici, studiosi del pensiero politico e che, di per sé, dimostrava come la stessa idea di una identificazione del fascismo con il totalitarismo fosse tutt'altro che condivisa. Peraltro la «via italiana» verso il totalitarismo venne percorsa, secondo De Felice, all'insegna di una vera e propria «rivoluzione culturale» destinata a risolversi in una «riforma morale» dalla quale sarebbe scaturito l'«uomo nuovo».

Ma fu un via che non portò alla realizzazione dello Stato totalitario.

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