Cultura e Spettacoli

Così Joan Didion racconta Joan Didion e il mito (sbagliato) della California che fu

La scrittrice americana attraverso la sua vita ripercorre l'epopea degli Usa

Così Joan Didion racconta Joan Didion e il mito (sbagliato) della California che fu

Durante la Seconda guerra mondiale, il padre di Joan Didion fu dislocato in giro per l'America. E la famiglia, ogni volta, lo seguì: è così che la piccola Joan non riuscì a frequentare regolarmente la scuola (almeno fino al ritorno a Sacramento). Ed è così che, durante un inverno a Colorado Springs, mentre erano tutti bloccati in casa dalla neve, la madre Eduene diede alla figlia dei vecchi numeri di Vogue, in cui si annunciava un premio per i laureati, il Prix de Paris, dicendole: «Potresti vincerlo». Tredici anni dopo, effettivamente, quando era iscritta all'ultimo anno di Berkeley, Joan Didion vinse quel premio, ed entrò a Vogue, dove è cominciata la sua carriera di giornalista e scrittrice. Non certo una «Miss Cuori solitari» (come lei stessa ha spiegato in una intervista), bensì firma di punta del New Journalism, autrice di numerosi libri tra fiction e non fiction letteraria e vincitrice di un National Book Award nel 2005 per L'anno del pensiero magico, in cui racconta la morte improvvisa del marito (quella della figlia Quintana, avvenuta appena prima dell'uscita del libro, è invece raccontata in Blue Nights).

Da dove vengo. Un'autobiografia, che viene pubblicato ora da il Saggiatore (pagg. 252, euro 24), in realtà è antecedente rispetto alle tragedie che hanno colpito la grande scrittrice americana: risale infatti al 2003 ed è legato alla morte della madre Eduene, nel 2001. «Quando morì mio padre, andai avanti. Quando morì mia madre, non ci riuscii» spiega nelle ultime pagine del libro. Questa «autobiografia» è un tentativo, doloroso e a volte tortuoso, di fare i conti con sé stessa: non tanto la scrittrice di successo, quanto una donna nata (nel 1934) e cresciuta in California, in una famiglia discendente da quei pionieri che, nell'Ottocento, avevano avuto il coraggio e la tenacia di attraversare il Paese e insediarsi nel mondo nuovo, l'Eldorado che loro stessi avevano contribuito a creare, insieme al suo stesso mito. La California è come la madre: appena se ne allontana, sente una nostalgia terribile. Nel '63, mentre è a New York, Didion scrive Run River: un trionfo di natura selvaggia e prepotente, di fiumi straripanti, di piogge e alluvioni che fanno spiccare, ancora una volta, l'eroismo degli eredi dei pionieri. Sono anche quelle «prove del nostro valore, inscindibili dal racconto della traversata». Però già allora Didion comincia a «nutrire dei dubbi»: sulla storia ufficiale, sul mito della traversata, sulla California e le sue ambiguità. Su sé stessa e sulle «barricate» che, come sua madre, e come tutti, ha eretto per proteggersi «dall'apprensione di una totale mancanza di senso».

Da dove vengo è l'immersione (e la riemersione) dagli equivoci che compongono una vita e un Paese: equivoci quanto più difficili da individuare perché radicati nella narrazione che costruisce l'identità, individuale e nazionale. Per esempio: la California, terra dell'esaltazione dell'individuo, ha ridisegnato il suo paesaggio e il suo sistema idrico, e poi ha prosperato, attraverso l'agricoltura prima e le commesse del ministero della Difesa poi, in definitiva attraverso miliardi di dollari federali, cioè dello Stato centrale. E ancora: quegli antenati temerari senza macchia che si avventurarono a Ovest riuscirono a sopravvivere al prezzo della morte di decine di altri, fra cui malati, donne, bambini. E poi: quel Paradiso perduto di cui tanto ci si lamenta negli ultimi decenni, da chi è stato rovinato? Joan Didion scopre che, alla base di quel mito così esaltato, «l'eredità californiana» non è altro che la capacità di abbandonare, di lasciarsi tutto alle spalle e correre, correre lontano, di solito per «vendere il futuro al miglior offerente». Lo rivela a sé e al lettore con il suo stile tanto più asciutto e apparentemente investigativo quanto più deve scavare in profondità, e rendere ragione di ciò che ci tormenta, e potrebbe distruggerci.

«Non esiste davvero un modo per fare i conti con tutto ciò che perdiamo», però la sua scrittura è uno dei modi per non arrendersi.

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