Cultura e Spettacoli

Così Pirsig rese la moto una metafora della vita a colpi di tecnica e zen

Ha rivoluzionato il romanzo "on the road" Diventando autore di culto con un solo libro

Così Pirsig rese la moto una metafora della vita a colpi di tecnica e zen

Prima si inserisce la chiave nel quadro; poi ci si accerta che tutto sia in ordine, la marcia in folle, aprire l'aria, dare un colpo di gas e infine avviare il motore. A quel punto è solo rumore e ciascuna ha un rumore diverso, come una voce familiare. Qualcuno ha detto che quattro ruote trasportano il corpo mentre due muovono l'anima. Ecco, l'anima: ogni motocicletta ne ha una, la sua, i cui tratti risultano alfine inconfondibili e diventano tutt'uno con chi la guida.

Nel 1974 uscì in America Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, scritto da Robert Maynard Pirsig. Quel testo, respinto da ben 121 editori prima di essere pubblicato, arrivò in Italia grazie ad Adelphi solo nel 1981. Allora avevo vent'anni e già una certa esperienza di guida. Comprai il romanzo, lo lessi e subito divenne il Libro. Uno dei pochi che ti cambiano la vita, per sempre.

Pirsig è morto ieri nel Maine a 88 anni. Da tempo non si sentiva più parlare di lui, rafforzando il legittimo dubbio che fosse stato un one man book. Dopo Lo Zen, infatti, uscì vent'anni dopo soltanto Lila: un'indagine sulla morale. Di lui si sono progressivamente perse le tracce: ha vissuto in solitudine, talvolta in barca sull'Oceano Atlantico, ha insegnato qua e là evitando la ribalta pubblica. Una grande tragedia lo ha però segnato, l'uccisione del figlio Chris durante una rapina a San Francisco, nel 1979.

Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta ha introdotto un nuovo modo di intendere la moto. Conoscerla, capirla, interpretarla, sapere come funziona ogni singolo pezzo, a cosa servono viti e bulloni. Se si rompe, fermarsi e aggiustarla. Prendendosene cura potremmo trarre lezioni sulla nostra stessa vita, dare un senso alla nostra esistenza. Si tratta davvero di un romanzo filosofico, reso ancor più straordinario dalla commistione con la letteratura di viaggio.

Prima la moto era soprattutto desiderio di libertà, ribellione, rifiuto delle regole imposte dall'ordine borghese. Lo si è visto soprattutto nel cinema. Nel 1953 Marlon Brando ne Il selvaggio (The Wild One) è a capo di una banda di motociclisti inguainati nei giubbotti di pelle nera. Guida una Triumph Thunderbird 6T e si propone come l'archetipo del biker sporco e cattivo che influenzerà una certa cultura a due ruote, in particolare gli Hell's Angels. Motorpsycho! di Russ Meyer (1965) ne segue la direzione, in senso grottesco, anticipando il mito di Easy Rider, diretto e interpretato da Dennis Hopper nel '69, insieme a Peter Fonda e Jack Nicholson. Il nastro d'asfalto che in Sulla strada fu teatro della Beat Generation diventa la scusa per un viaggio senza meta e senza senso, includendo acidi e psichedelia negli ultimi vagiti del Flower Power e dell'hippie generation.

Anche nello Zen il pretesto è un viaggio, dal Minnesota alla California, protagonisti una vecchia BMW, l'autore e il figlio dodicenne identificato in Chris. Ma l'architettura del romanzo si fa via via più complessa e al racconto dei chilometri percorsi ogni giorni si sovrappongono continue digressioni filosofiche. La personalità del narratore si sdoppia in un altro da sé, Fedro, un io devastato che riemerge dal profondo dopo aver sfiorato la follia, curata con l'elettroshock. Senza trascurare il rapporto tra padre e figlio, in una reciproca conoscenza senza altri filtri, il sogno di ogni genitore che cerca di trasmettere al figlio quella passione che molti giudicano solo un pericolo.

«Senza togliere la mano dalla manopola sinistra vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza. Il vento, anche a cento all'ora, è caldo e umido. Chissà come sarà nel pomeriggio, se già alle otto e mezza c'è tanta afa»: dal meraviglioso incipit finiamo immersi tra le pagine più belle della letteratura americana degli anni '70. E ancora, «Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c'è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. È incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi un'esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata». Per poi affrontare la mistica, «Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore».

Ha venduto, e continua a vendere, milioni di copie in tutto il mondo.

Chiunque sia nato per correre, questo libro lo porterà ovunque con sé.

Commenti