Cultura e Spettacoli

"Così prendo in giro i maniaci del web"

In scena da martedì "Evolushow" il nuovo spettacolo di Enrico Brignano che sfida la tecnologia imperante

"Così prendo in giro i maniaci del web"

«Io il selfie lo odio. Crea inquinamento psicologico. Tutti lì a fare smorfie e boccacce come tanti deficenti. Se mi si avvicina ancora qualcuno e mi chiede “Possiamo fare un selfie?”, io glielo dico chiaro e tondo: No». Enrico Brignano e l'evoluzione tecnologica. Enrico Brignano ed Evolushow : ovvero il ritorno alla grande del comico romano (da martedì al Sistina di Roma; in aprile in tournée a Milano) e della sua caustica ironia.

Dopo le due trionfali stagioni di Rugantino , il ritorno ad uno one man show. Per parlare di cosa?

«Di nessuno dei soliti argomenti che ogni giorno ci fanno il terrorismo psicologico. Niente politica, perché non voglio rovinare la serata al mio pubblico; niente economia, perché l'economia è bella quando dura poco; niente sanità, perché sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Basta! La vita non è solo accapigliarsi su chi salirà al Quirinale. Preferisco misurarmi sull'evoluzione (o distorsione?) prodotta in noi dall'uso (e abuso) della tecnologia. Selfie compreso».

E come?

«Attraverso la tecnologia, è ovvio! Con videoproiezioni, canzoni, balletti. E l'osservazione ravvicinata delle manie tecnologiche di noi italiani. Che siamo un popolo di poeti, artisti, bustarellari. E internet-maniaci».

Quali le principali vittime di Evolushow ?

«I giovani. Che non sono mai stati tanto viziati, e perciò tanto lontani dalla realtà, come oggi. La generazione digitale neppure si rende conto che il problema dei nostri nonni, quand'erano giovani, non era avere solo quattro giga al mese d'internet. Ma sfuggire alla fame, ai rastrellamenti, alle fucilazioni».

Si dice che oggi sia diventato più difficile fare satira, perché non ci sono più i Flaiano, i Metz, i Marchesi, i Verde…

«Ma tutti quei signori avevano fatto la guerra, avevano letto, erano colti... Oggi sarebbe molto più difficile essere un Flaiano, perché internet ha velocizzato, appiattito, banalizzato tutto. Senza contare i guasti della popolarità. Sfiderei un attore satirico del passato a vivere come si vive oggi. Ce lo vedete Totò alle prese col gossip?».

E dell'argomento satira oggi, di cui s'è molto parlato a proposito dei fatti di Parigi, lei che ne pensa?

«Ne penso che - ritenendo ovviamente inaccettabile l'atto terroristico - anche il buonsenso reclama i suoi diritti. Se mia zia non ama le molliche sul suo balcone, io non vado lì da lei a sgrullare la mia tovaglia. A Roma c'è un detto: “Quando ce vo', ce vo'”. Ma il problema è che, spesso, proprio nun ce vo'».

E Charlie Hebdo ? Ha fatto bene o ha sbagliato a pubblicare quelle vignette?

«Ci sono alcuni che fanno una satira che fa ridere, pochi, e ci sono quelli che offendono gli altri. Charlie Hebdo non è che vendesse tantissimo. Ci sarà un motivo, vuol dire che alla gente già da prima non piaceva il suo modo di esagerare. Non dico che sia giusto quello che hanno fatto, ma bisogna darsi una regolata, riflettere un po' di più».

Da vent'anni lei pratica il recital comico. Quant'è cambiato il modo di ridere del pubblico?

«Non è cambiato. Da Plauto in poi, la gente ride sempre delle stesse sei, sette cose. Sesso, cibo, debolezze caratteriali, rapporti fra le persone. Cambia la chiave, attraverso cui questi temi vengono sbeffeggiati. Oggi prevale la chiave volgare, perché molti colleghi - anche bravi - la usano come scorciatoia, come salsa forte per richiamare la risata. Solo che le parolacce sono come le ciliegie: una tira l'altra. E, alla fine, dopo aver riso anche parecchio, di quei colleghi viene anche da pensare: “Ma come sono diventati volgari!».

Visto che non ne parlerà nel suo spettacolo, almeno a noi può dirlo. Chi vedrebbe bene al Quirinale?

«Una persona integerrima. Per questo l'operazione è difficoltosa. Perché molti nostri politici, pur d'arrivare al potere, fin da giovani hanno frequentato brutte amicizie. E poi queste cose ad un attore è meglio non chiederle. Sennò gli viene in mente quel ministro che, alcuni anni fa, disse “col teatro non si mangia”. Beh: noi ci mangiamo. E ci paghiamo pure le tasse.

Grazie alle quali contribuiamo allo stipendio di quel ministro».

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