Cultura e Spettacoli

La critica non capirebbe comunque il capolavoro

Tre scrittori rispondono al filologo Lorenzo Tomasin, che ha sollevato dubbi in merito alla qualità dei romanzi italiani contemporanei: qui la reazione di Massimiliano Parente

La critica non capirebbe comunque il capolavoro

Non è che abbia torto il filologo Lorenzo Tomasin, che in riferimento alla cinquina del Premio Campiello denuncia l'uniformità dei testi: sono scritti nella stessa lingua standard, se li mischiate è come fare il gioco delle tre carte con la stessa carta.

Ma non è neppure vero che non esistono i capolavori, lo si è detto sempre, in ogni tempo, perfino quando Flaubert spedì a centocinquanta critici Madame Bovary e la maggior parte fece finta di non averlo ricevuto. O quando nella Francia degli anni Dieci i critici si sperticavano nel parlare di Pierre Hamp (il Saviano dell'epoca), di cui oggi ci ricordiamo solo perché se ne lamentava Marcel Proust con il suo editore Gallimard («Perché investi tutti questi soldi in pubblicità per Hamp e non per la Recherche?»). È che gli addetti ai lavori i capolavori non li hanno mai saputi vedere, al limite li hanno affossati. I critici? Berardinelli ha dichiarato da anni di non leggere più romanzi, autore di inutili saggi come Non incoraggiate il romanzo, ispirato a un libro di Filippo La Porta intitolato Meno letteratura per favore, e poi si lamentano che i critici non servano più a niente. Ma suicidatevi, fate prima.

Nel frattempo, in un ventennio di capolavori ne sono usciti eccome, né più né meno che in qualsiasi altra epoca. Nel 1993 è uscita per Adelphi la riscrittura di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, l'ultimo gigante rimasto, da premiare a occhi chiusi, mentre quell'anno lo Strega premiava La casa del padre di Giorgio Montefoschi e il Campiello Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. A proposito di quell'ultimo Fratelli d'Italia, lì il sublime Arbasino ricorda cosa dicevano i critici di Carlo Emilio Gadda: «Ironia oziosa», «Scherzo a vuoto», «Aggrovigliata stesura», «Prose ricche, troppo ricche», «È un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli».

E ancora. Tutti i capolavori di Aldo Busi, ignorati da qualsiasi Strega e Campiello. Nel 2009 per Mondadori esce il monumentale Canti del caos di Antonio Moresco, ma lo Strega premia Canale Mussolini, di Antonio Pennacchi, e il Campiello Accabadora di Michela Murgia. Se c'è un criterio, è premiare libri dimenticabili e infatti già dimenticati.

Ne so qualcosa perfino io: a fine 2017 è finalmente uscita la mia Trilogia dell'inumano, un'opera frutto di 14 anni di scrittura e perfino studiata nelle università, in un volume di mille e settecento pagine edito da La Nave di Teseo, coraggiosa operazione di Elisabetta Sgarbi. I critici, figuriamoci se l'hanno presa in mano, ma non cambia la vita a me nel presente, cambia come saranno ricordati loro in futuro, cioè meritatamente dimenticati.

In fondo, gli editori pubblicano quello che credono di vendere meglio, e sono gli stessi libri che candidano ai premi (eh sì, i libri scelti dai giurati sono scelti prima dagli editori, cioè dai venditori). I critici, per l'appunto, sono defunti da tempo, e in ogni caso aveva ragione Witold Gombrowicz quando si domandò: «Come può un inferiore giudicare un superiore?».

Thomas Bernhard, invece, fu più sottile: «Ricevere un premio è come farsi cagare in testa».

Commenti